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di Federico Migliorati

     Il poeta esce col sole e con la pioggia

     come il lombrico d’inverno

     e la cicala d’estate 

     canta e il suo lavoro

     che non è poco è tutto qui.

     D’inverno come il lombrico

     sbuca nudo dalla terra

     si torce al riflesso di un miraggio

     insegna la favola più antica.


     *


     Quando sarò morto

     che non vi venga in mente

     di mettere manifesti:

     morto serenamente

     o dopo lunga sofferenza

     o peggio ancora in grazia di dio.

     Io sono morto

     per la vostra presenza.


Tra i poeti che hanno attraversato il secondo Novecento imprimendo il proprio marchio e lasciando una traccia indelebile di sé non manca il nome di Salvatore Toma, il cui verso si incista in un’esistenza, per quanto breve, originale nel suo tumultuoso evolversi. Salentino d’origine (nasce a Maglie nel 1951, concittadino di Aldo Moro), figlio dunque di una terra bella come poche, dalla quale non si distaccherà pressoché mai, manifesta fin dall’adolescenza un fervore e una fecondità culturale spiccati che lo porteranno ad abitare i luoghi della scrittura rivolgendo la propria attenzione in particolare verso tre grandi mondi: quello della natura, e degli animali segnatamente, quasi un rapporto panico in cui «Dio è in ogni cosa», in ciò restituendo in parte al panorama italiano quelle atmosfere del naturalismo tipico del Nord Europa (si pensi al Nobel Knut Hamsun); in secondo luogo il tema erotico che egli affronta in un contesto onirico con disinvoltura e in maniera disinibita, dando all’eros nella letteratura un ruolo e una valenza tutti propri; ed infine la morte, colta con acutezza nel mistero insondabile, in una sfida costante con l’esistenza. Eros e Thanatos: il viaggio di Toma dissoda or l’uno or l’altro di questi terreni ponendosi di fronte a essi come un rilevatore.


Analogamente a Ungaretti è infatti convinto che la morte si sconti vivendo e che a nulla valga ignorarla o farsi beffe di essa, semmai è meglio «insegnarle il perdono che darle le spalle per viltà o il petto per arroganza». Di fronte ai grandi interrogativi della vita («l’incontenibile gioco») il salentino si pone come un fustigatore di costumi, non tollera le convenzioni, ha in spregio l’ipocrisia e la maldicenza, le menzogne e l’arroganza: nei suoi versi, esemplificazione ideale del suo percorso, non manca di lanciare strali contro certo bieco, tonitruante intellettualismo.

C’è un passaggio della biografa Maria Corti, nella prefazione al Canzoniere della morte, che riassume con acutezza la sua visione: egli è convinto che la morte sia un dolce presagio, ne assapora quasi la presenza (in ciò anticipando o prefigurandosi già quella fine giunta troppo presto per sua volontà di fronte alla vita, «dura, irresistibile agonia»).

Il suo intenso, cristallino e costante contatto con l’elemento naturale promana da una poesia verace che dà la cifra della sua concezione di esso: acuto osservatore della fauna di cui amava circondarsi quasi per viverne in simbiosi, Toma offre alla nostra epoca, disinteressata e superficiale al riguardo, un limpido sguardo, intriso di ingenuità e sagacia, verso gli animali, in ciò rendendo il tema ambientale predominante come già fece per esempio Zanzotto nella sua prima raccolta di versi risalente al 1951 (l’anno di nascita, peraltro, di Toma) dal titolo Dietro il paesaggio, dove l’uomo è quasi estraneo, assente dalla narrazione. Lo stesso habitat, in cui l’essere umano permane ai margini, si rivela nell’aldilà, in una nuova dimensione in grado di restituire dignità alle bestie seviziate e uccise: si direbbe dunque una visione animalista, ma anche in quest’ambito senza paraocchi o steccati.


Non possiamo dimenticare inoltre che il linguaggio di Toma è necessariamente correlato a quel vizio dell’alcol che lo ha segnato drammaticamente per molti anni, vizio che egli lega inscindibilmente con la scrittura, in una sorta di correlazione necessaria. Il tormento interiore, l’insopprimibile necessità di deviare rispetto alla comune strada degli uomini lo conducono a permanere con l’occhio rivolto verso ciò che gli sta alle spalle tanto da fargli dire che «è il passato, non è la morte che mi fa paura». Nulla riesce a soddisfarlo, a renderlo proattivo, c’è sempre un «sogno proibito» nella città che non si trasforma in realtà: tutto è un cicaleccio cacofonico, un brusio di sottofondo che non diventa mai musica gradevole. Questo lo sfondo della sua esistenza in cui il progresso è un feticcio ormai stinto, uno specchietto per le allodole che non incanta e davanti al quale deporre ogni fiducia e speranza. Come il Cosimo di calviniana memoria, anche Toma scelse per qualche tempo di vivere su un albero o ai piedi di esso, rifugio dal mondo visto come una cloaca, ultima separazione e cesura con l’ambiente circostante. Fu definito, come decenni prima Campana, ‘poeta maledetto’: per quanto siano sempre fallaci o monchi i paragoni, di certo Toma non represse mai in alcun modo la sua verve poetica, il suo istinto primordiale che lo pose in contrasto con la bigotta società del tempo, quella stessa società che non lo comprese. L’uomo libero e libertario aveva già vinto, andando oltre i conformismi e gli schemi precostituiti e ritagliandosi a soli 36 anni (morì – probabilmente a causa della cirrosi epatica – nel 1987) uno spazio significativo e originale nella poetica del Novecento, fortemente attuale ora come allora, con quel suo linguaggio diretto, scabro e talvolta violento e visionario che lo ha reso un’icona della sua generazione.


     Spesso penso alla morte

     al modo in cui dirò addio alla vita

     e come avrò la bocca in quell’istante

     le mani il corpo.

     Vorrei morire mi dico

     senza saperlo

     a tradimento

     in un momento

     in cui non me l’aspetto. 

     Ma ecco che l’alba

     riaffiora assurda

     e la vita ridiventa

     l’incontenibile gioco.



*

Fotografia © Ernesto Fazioli


07/06/2022

Sulla soglia

TRA L’AMORE E LA MORTE:
“L’INCONTENIBILE GIOCO”
DI SALVATORE TOMA

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