di Federico Migliorati
L’aforisma è stato largamente praticato nel Novecento, si pensi alla generazione dei Flaiano e dei Longanesi, di Cioran e di Kraus solo per citarne alcuni, e resta anche nel nuovo millennio un richiamo per quanti cercano di andare oltre il dicibile tramite, appunto, una parola che lo esprima. Tutto ciò per introdurre una figura che non ha ancora ricevuto l’apprezzamento e il riconoscimento che merita e che proprio sull’aforisma ha edificato la propria fama letteraria: Antonio Porchia (1885-1968), calabrese di nascita e argentino d’adozione, richiama alla mente quel minatore che penetrando nelle viscere della terra ne risale in superficie recando con sé piccoli tesori, straordinarie pepite: è una visione, questa, che già fu di Giorgio Caproni ma che riteniamo si possa attagliare con una certa precisione anche allo straordinario aforista Porchia.
Nell’epoca delle verità assolute, della prosopopea di maestri tuttologi, nell’onniscienza che pure certi letterati favoleggiano su di sé egli ha concepito questo genere per far leva sulle fragilità dell’essere umano, il quale si crede Dio, «nato dal non saper fare»: si ribalta dunque il costrutto concettuale che affida alla divinità l’onnipotenza per ‘limitarla’ all’incapacità dell’uomo. Fragilità, si diceva: sì, perché Porchia è stato in primo luogo un letterato fragile e umile (lo apprendiamo da questa raccolta dal titolo Voci acutamente tradotta dallo spagnolo da Andrea Franzoni per la sapiente scelta di Argolibri nella collana Talee diretta dallo stesso Franzoni e da Fabio Orecchini), scevro da pregiudizi, sincero e onesto nel suo dire, orientato a un umanesimo di fondo («L’uomo, quando non è un automa, non funziona bene») che ne impregna la produzione intellettuale.
Al centro della sua vasta produzione di voci, in cui il sentimento vive un’ambivalenza, un dualismo apparentemente contraddittorio, c’è il descensus ad inferos che è capacità di conoscere l’inconoscibile, la tragedia connessa all’umanità dolente, ma altresì una spinta pervicace a osare, a emergere oltre la superficie delle cose, a tentare l’impossibile perché «chi non vuole ciò semplicemente non vuole». È un essere duplice Porchia, non nell’accezione di bipolare, tutt’altro: in lui troviamo la sagacia e la perizia di uno scavo nella parte nascosta di sé e dell’uomo in generale così come l’esperienza unica e irripetibile di ciascuno di noi («Sì, è questo l’unico bene: perdonare il male. Nessun altro»; e ancora: «La perdita di una cosa ci ferisce finché non l’abbiamo persa del tutto»).
Il taglio prospettico dei suoi componimenti offre una visuale originale, libera da condizionamenti, proprio come è stata l’intera sua vita, capace di esorcizzare la morte parlandone e mostrandosi nella sua nudità: «È tanto che non chiedo nulla al cielo, e ancora non si sono abbassate le mie braccia». Un’esistenza non facile, resiliente e resistente (si considerino le numerose professioni svolte e ben lontane da quella classica di letterato, «Il mio primo mondo lo trovai tutto nel poco pane che avevo») e proprio per questo più sensibile, più aduso a certe spigolosità che il quotidiano peregrinare ci pone di fronte («A volte credo sia tutto male e che il bene sia solo un bel desiderio del male»). L’hic et nunc deve fare i conti con l’aldilà, con l’immagine della signora con la falce ed ecco farsi strada, nella negazione di una trascendenza, una crepa nel muro di certezze («Quando non credo in niente, preferirei non trovarmi con te quando non credi in niente»), sebbene facile sia per l’uomo voler «essere un dio senza la croce».
In lui persiste una immota solidarietà per gli ultimi, i sofferenti, i pària, coloro che vivono ai margini, soli com’egli stesso si percepiva e si sentiva, perché «hanno pietà per le vittime, le vittime» e tutti un poco lo siamo nel viaggio terreno: lo sguardo è al mondo e agli altri, mai ripiegato su di sé. Ed è da tutto ciò, da questa empatia che la sua si configura come una voce compassionevole, capace di condividere anche un dolore distante e distinto dal proprio («Ancor più pianto del piangere è veder piangere»). Luce e tenebra sono compenetrate l’una nell’altra, come bene e male: «Le ombre: alcune nascondono, altre svelano» è un aforisma che racchiude un intero universo di conoscenza, di scoperta, di sperimentazione, di interpretazione delle singole situazioni abitate nel passato e nel futuro.
Spesso controcorrente, Porchia era ben conscio del valore della sua opera, figlia di una storia tutta particolare: «Diranno che vai per la strada sbagliata se vai per la tua strada» corrobora l’idea di un uomo orientato a non lasciarsi influenzare dalle mode e da certa temperie culturale di tendenza. Ancora leggiamo che «Chi scaglia un dardo per ferirmi, trova la ferita già aperta e non può ferirmi»: rispondere alla cattiveria con la mossa della fragilità spiazzante e stupefacente. Libero da schemi, dogmi, sovrastrutture mentali, egli è riuscito a sciogliere quel grumo di narcisismo che spesso contraddistingue l’intellettuale («Prima di trovare la mia strada, ero io la mia strada») il quale, se davvero è tale, è contro il potere di cui, come sosteneva Dario Fo, bisogna dubitare, dubitare sempre. «Si vive con la speranza di diventare un ricordo»: questo il suo testamento più lucido e reale, foscoliano, la voce che muove un animo sagacemente irrequieto.
12/06/2023