Recensioni
GINO SCARTAGHIANDE,
“SONETTI D’AMORE PER KING-KONG”
(GRAPHE.IT, 2023)
di Neil Novello
Accade già d’acchito, con Sonetti d’amore per King-Kong di Gino Scartaghiande, quel che a un lettore accade con la poesia di René Char o Paul Celan. La parola poetica si nega volontariamente all’aperta dicibilità per arretrare e come sollevarsi in atto di fuga. Così il verso di Scartaghiande, nella sua apparente intemporalità e forse desiderata aspazialità, si abbandona lontano da ogni centro. Si smarca come da un punto di visione terrestre per collocarsi in una periferia zenitale, al limitare di un luogo da cui ritorna a rivelarsi, in mentis, la perduta bellezza del mondo.
«L’immagine è l’universo delle nostre fughe» (L’immagine), nei Sonetti appare come la legge segreta della poesia di Scartaghiande. Perché qui l’imago del riferimento non è l’essere né il dover-essere del mondo. È la parola poetica che nella conquistata distanza compie una rifigurazione, rifà cioè la forma dell’esistente.
Ecco allora che da così lontano la poesia diviene un possibile rudeliano amor de lohn. La poesia come possibile preghiera venuta, chiamata a parlare da un altrove. E la voce della poesia di Scartaghiande, una voce gettata nel mondo dalle terre estreme del totalmente altro, è della qualità originale dei poeti oscuri per eccesso di chiarezza, di luminosità. Allora si è dinanzi a un effetto di rifrangenza, al timbro di un discorso poetico affidato a un’eco di ritorno. Ciò testimonia che i Sonetti di Scartaghiande sono scritti sull’ideale verso dell’esistenza. Essi paiono pronunciati dalla parte apparentemente occultata all’evidenza del vivente.
È una poesia più ritornante da un’altra realtà sentimentale che non l’espressione prosaica seguita alla banale condizione umana dell’hic et nunc. «Noi qui perdiamo la cognizione del vuoto e del nulla» non testimonia letteralmente un’ascesi aerea, la scelta di chi abita nella turris eburnea e parla dal teatro egoico di una peripezia cerebrale. L’altrove è invece l’esito di una volontà distanziante per illuminare una scena in cui tutte le cose veramente salgono, possono finalmente salire a fior di poesia.
Se vale coglierne il nesso in una grandiosa traccia del Novecento, la voce di Scartaghiande è tutta contenuta nella parola di Mistah Kurtz in Cuore di tenebra di Joseph Conrad. Ciò che monta all’orizzonte di una visione liberata è il sentimento-madre della poesia. «Quale orrore! Quale orrore!» è l’ultimo empito dell’eroe conradiano. Ed è il primo di Scartaghiande. Dunque, l’amore di lontano equivale a una nostalgia amara perché esso parla del cuore annegato di chi ha amato il mondo e lo ha amato di un amore disperato, senza ragione, tragicamente. Per fissarne l’identità attraverso il lessico heideggeriano, la poesia di Scartaghiande è una voce parlante a un passo dalla radura, a un passo dalla luce. Una poesia evasa dal mondo per meglio inchiodarsi alla realtà, o meglio per sporgersi con labbra tremanti sulla sua catastrofe: «Ogni uomo ha i propri due occhi su di un pianeta che non è la terra» (Il nome, II).
Tendere allora a mantenere un’orbita, un’alta traiettoria sulla realtà, chiama la parola poetica a alzare la voce al cielo («Aiuta le parole ad andarsene», Che almeno). Si impone quindi una lettura rovesciata del punto di vista apparente. La voce del poeta non è disimpegnata ma occultamente radicata nella secolarità, nell’esistente. La sua è la parola di una voce immanente, la voce aperta di una poesia che si fa urlo, rancore e bestemmia.
Qui però è al tramonto, alla cancellazione, la realtà del mondo com’è, anche se il mondo è sempre sorvegliato dall’alterità vigile della poesia. Il tempo riavvolge sé stesso e si riordina in una sequenza inattesa. Il suo esito più coerente è esposto in una volontà, in un «estremo atto d’ / indifferenza», di abbandono della «vita» (Paragrafo). E ciò perché alla vita si imputa di non aver saputo essere la parola né il dono della promessa. «È appena l’inizio di un tempo altro»: il verso di chiusura di Appena all’inizio inaugura un punto di svolta. Qui il discorso del poeta scarta verso un’altra qualità di voce. La parola ora si affida a un dire più oracolare. E la stessa voce, più divinatoria, inclina a un immaginario prossimo all’Apocalisse di Giovanni di Patmos. Inclina cioè a luoghi in cui si annuncia il sogno redento di una «nuova terra».
Apocàlypsis appunto, rivelazione, disvelamento, scoprimento di una «nuova terra». Nella confessione di una rinascita, in cui il poeta domanda per sé una nuova identità («Dovrai darmi un nome», L’immagine), la poesia indovina si fa più religiosa, perché ora lo sguardo sul creato muore a una rinascente sacralità: «Interdetto / soliloqui per immagini / tu termini qui nel luogo / dell’inizio».
La sezione Campo testimonia l’avvenimento di una ricapitolazione, l’innesco di un’escatologia tutta pregna d’apocatàstasi. Il disincanto parla la lingua di un ricominciamento, registra cioè come un ritorno all’inizio dopo la fine di un mondo. E la fine si rigenera in una nuova nascita. È qualcosa che orienta la voce del poeta verso un luogo di confine. Una sorta di finisterræ, un luogo ancipite dove di là e di qua sono la stessa cosa. E ciò perché nel nuovo mondo tutto è uguale e tutto da ricreare. E non c’è più bisogno di un sollevamento, di una estraniazione orbitante sulla realtà. Qui l’abitare è possibile in un habitat e con una voce poetica che si è lasciata dietro ogni cosa, l’agonizzante mondo di prima e il suo morente balbettio.
Dalla terzultima sezione dei Sonetti, Sospensioni, il mondo di dopo, la «nuova terra» espone anche la conquista di un altro sentimento. La poesia di Scartaghiande ora appare in fuga anche dall’antica vocazione immaginaria: «Come essa fu andata. Fu. È.». Ricompreso nell’alveo di una catarsi rivoluzionaria, il poeta adulto si è dotato di un passato, di una trascorsa storia che ancora è. E in Distanza, penultima sezione della raccolta, Scartaghiande rende nel verso, anzi può ora esporre in poesia la testimonianza di una memoria allucinata. Il suo oggetto è la sua ormai intramontabile ossessione, come la persistenza di un trauma antico che al soggetto poetico impone ancora la propria verità. La impone, in apparenza, contro la volontà della vittima. Il poeta in realtà la impone a un sé stesso ripensato, ritrattato e come punito di essere stato un tempo quel mondo.
«Mi parlo mostruosamente», il verso di chiusura del terzultimo testo di Distanze, decritta il segreto di una poesia che potrà essere finalmente letta nell’immagine riflessa del poeta colto in autoanalisi dinanzi allo specchio. Nel Posto, il topos occulto, cioè il luogo magicamente conquistato, non è e non ha più una geografia, se non come spazio di un’interiorità ritrovata malgrado il poeta. «Il posto / è chiuso e distrutto, ed io / non so come né dove sono giunto» non è quindi l’ammissione di una resa, di uno smarrimento. È uno stato di inermità luminosa, unheimlich. Qui Scartaghiande parla dal lido estremo di una presenza ontologica. La sua voce si avverte ma è latente, ancora lieve. Perché qui non si approda all’essere. E non vi si approda perché è l’essere a tracciare il primo parallelo, il meridiano a venire.
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Immagine di copertina: Christophe Blain, King Kong, 2004
11/01/2024