Recensioni
SIMONA DE SALVO,
“LA CAMICERIA BRILLANTE
DEI MIEI ANNI”
(MARCO SAYA, 2016)
di Davide Toffoli
Simona De Salvo focalizza la propria attenzione sulla «polarità continua tra la vita e la morte», evocata già nei versi proemiali della raccolta («Il sole, dalla finestra dell’Hotel Hannover / genera una linea d’ombra sotto il marmo / del davanzale. / È di nuovo estate. / Alla tivù, un documentario sul doppio omicidio di Chris Benoit, in Georgia»). Da una stanza di albergo è possibile prefigurarsi la camminata, tra bar aperti e file di palme, verso il ristorante in cui si lavorerà per la stagione estiva («una camicia, un grembiule, / un contratto di tre mesi / al Marinelli»). Il panorama è al tempo stesso interno ed esterno («Fuori, Riccione sdraiata sulle tegole scure, / dentro, la vita aperta in due / come un fiore tropicale»), attraversato dall’odore del mare, dal vento, da un senso di precarietà «senza vie di fuga».
La prima sezione si apre con una breve (e molto musicale) prosa poetica che prende le mosse dalla frase di un clochard di Carnaby Street: «Life is something big and vibrating». Lo spazio e il tempo sono ora mutati; nell’inverno londinese, le immagini si ammucchiano e svaniscono freneticamente: l’idea è quella di un circuito, straniante e ‘onirico’, fatto di accumuli e sottrazioni, di stimoli e incontri fugaci. Una citazione di M. Cărtărescu («Alla mia tristezza erano spuntati i dentini da latte») vi introduce una nube funerea – la minaccia di una fine – mentre s’insiste nel tentativo di quantificare (in litri) la lontananza, di trovare oggetti e misure persino in relazione ai concetti più astratti (noia, tristezza).
Scrivere è un atto fisico: la parola più naturale è anche la più concreta. A una raffica di domande tocca rispondere in modo quasi brutale, forse per accostarsi e allontanarsi in fretta dal centro della ferita («Sei innamorata. / Sei giovane. / Sei una brava ragazza. / Hai una sensibilità incredibile»). E se dopo tanta pioggia fa ritorno l’estate, l’anima del poeta pare sul punto di prender fuoco perché le cose del mondo «verranno spazzate via, tutte insieme, una dopo l’altra».
Il quadro che ci viene mostrato è asettico, privo di umanità; però capita anche di approdare nella dimensione (attesa più che vissuta) del sogno, dell’ideale, con esiti decisamente interessanti: «mentre fisici nelle loro stanze / ipotizzavano un universo in espansione, stelle / sempre più lontane / e il caffè saliva dalla moka / del condominio, tu / ti sei accorto / di amare tutto, e davvero / tutto, e disgraziatamente». Ma il più delle volte l’incontro si riduce a un mero accenno, a uno sfiorarsi. In fin dei conti è utopistico pensare di appartenere a qualcosa, a qualcuno: materiale e metafisico vanno intrecciandosi senza mai guardare nella stessa direzione. E mentre in caffetteria «tutti si fermano e guardano / per un attimo / nella panna della tazza», si ha la percezione che solo ciò che realmente vive può morire. Eppure ciò che va a morire non può in nessun caso trascurare la vita («Comprerò chili di rumore e di risate con il mio primo stipendio»).
Nel libro della De Salvo c’è un continuo affastellamento di corpi, oggetti e luoghi (Genova, Sestri, ostelli e treni). Siamo in guerra, sotto un bombardamento che lascia senza fiato. Tuttavia, di tanto in tanto – con sorpresa – ci s’imbatte, come nei bagliori atomici di Hiroshima e Nagasaki («d’altro canto la guerra sarà domani o dopodomani / [...] / continueremo a lavorare dodici ore al giorno»), in una luce poderosa e quasi definitiva che sa prepararci all’epilogo ambizioso: «Nella mancanza di lirismo, vidi / il passato sgretolarsi. / Fuori dalla biologia e fuori da ogni legge. // Dove i vetri del Tritone scomparivano / tutto il cosmo si apriva, nero e intatto / e io vi scivolavo dentro». Perfetto commiato di una voce giovane, radicale e sradicata, che fa parola (e significato) di una precarietà che è di tutti:
addormentarmi,
mentre la neve crolla e soffia lontano la luna
verso il centro dell’universo.
***
Lo sai? Gli uomini che vanno a messa
mi ricordano i soldati di plastica
che si mettevano in fila sul davanzale se c’era
bel tempo. A noi, però
i cartelli indicano giorni di pioggia
e non abbiamo nemmeno rubato un’auto
con tergicristalli contro la noia.
Cosa stiamo aspettando, amico mio?
Ora, non ti dirò che presto troveremo capelli chiari
allo specchio né ti mostrerò come, in fondo
stia scrivendo di te per la prima volta;
preferirei raccontarti della bellezza
che vive nascosta tra le immondizie, di quella
bellezza
per cui io ti dissi: è vita, e d’altro non mi interessa.
Ma ti ascolterei ancora mille anni respirare nella notte
– gli occhi sbarrati, le due e trenta precise –
finché, forse, mi dirai
girandoti nel buio: nessuno verrà mai a salvarmi.
NECROLOGI
Quanta bellezza, quanta miseria
ci sono dietro le vetrine di una caffetteria passata l’ora esatta
in cui
scompaiono gli stati di coscienza
e rimane in fil di ferro solo un necrologio?
È una superfice minima di pelle
quella colpita da notizia
il giusto punto
che rovescia un intero arco di strumenti a corde
grandiosi atti d’amore carnale
e te li riduce a stampe rovesciate
bianco e nere
giustapposte nell’elenco delle cose
e tutti si fermano e guardano
per un attimo
nella panna della tazza.
*
Fotografia © Giorgio Galimberti
06/11/2020