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Recensioni

STEFANO BALDINU,
“BOGHES/VOCI”
(PUNTOACAPO, 2021)

di Francesca Innocenzi

Nella silloge Boghes/Voci, Stefano Baldinu dà corpo alle principali varianti della lingua sarda, parlate nelle diverse località dell’isola. Ne scaturisce una singolare polifonia, un accordo di voci (non certo casuale il titolo) che si riconoscono in un intento corale oltre ogni particolarismo.

Parto da una semplice riflessione: la scrittura è uno straordinario veicolo di consapevolezza culturale, e il determinarsi di una tradizione scritta è, per una lingua, segno tangibile di esistenza, memoria e attitudine al dialogo con l’alterità. Per questo l’opera di Baldinu assurge a testimonianza poetica di grande spessore; il recupero di una storia personale, delle radici familiari, apre la via ad un’indagine linguistica attinente l’intera Sardegna, in una prospettiva di avvicinamento attraverso la parola.


Il titolo porta a considerare per l’appunto l’impianto polifonico, quindi il ruolo del dato musicale. E dal momento che, si sa, la musica si nutre di silenzio, è proprio «silenzio» uno dei termini chiave della raccolta. Il vocabolo si trova ad assumere differenti sfumature in rapporto al contesto: è il silenzio cantato in attimi di tregua dal vortice del vivere quotidiano; è abitudine che confina ciascuno come monade impenetrabile, racchiusa nel proprio universo. La poesia può abbattere queste barriere, prendendo le mosse dall’osservazione dell’orizzonte interiore, ponendosi in ascolto. Ancora, silenzio è stupore, meraviglia di fronte a quanto carpiscono i sensi; silenzio di persone e cose perdute, tuttora presenti in scintille di immenso. In quella «ortografia d’universo» che la poesia riproduce, l’io lirico si protende a cogliere il senso di questo silenzio, come accadimento da decifrare: «dentro questa tempesta di note che mi punge le dita / senza sfiorarle solo per intuire dalla desinenza dei tuoi passi / il senso del nostro silenzio». È così che il poeta si fa scriba, custode del sacro, esercizio che necessita della giusta dose di umiltà e fatica. La parola poetica interpreta l’ineffabile, ricordo e ripetizione di un alfabeto cosmico, e, come un’istantanea, ha il potere di fermare il tempo; vive dell’istante della contemplazione, nella sospensione dell’ordinario flusso, e tuttavia non annienta la coscienza del precipitare dell’ora.

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Il verso segue un andamento lirico-discorsivo, con reminiscenze della tradizione letteraria (si veda, ad esempio, «nonnulla di sole», costrutto di ungarettiana memoria). Colpisce l’inesausta ricchezza delle metafore, in un susseguirsi di immagini che nella parola vedono esaltata la loro efficacia. In Un’ainu/ Un asino, particolarmente interessante la similitudine asino-isola, accostamento che coniuga realismo e archetipo, guidandoci verso un luogo-tempo atemporale.

Altrove, scenari di arida, scabra desolazione sembrano rivestire la funzione di correlativo oggettivo della tristezza: «Sola e asciutta come una parete di roccia / la luna piena non lascia impronte / sulla sabbia. / Qui nasce, qui muore / il riso di un vecchio / indurito dal freddo». Il disagio esistenziale viene evidenziato anche dall’utilizzo di suoni duri e di un lessico afferente l’area semantica del capovolgimento, del rovesciamento: «Ritorna un gruppo di luci sparse / a scricchiolare sottovoce / sotto la crosta del dolore / e una manciata di parole / a velare la postura di un gatto rovesciato, / come la chiglia di una barca, / vicino ai miei gerani».


L’autore non evita di guardare in faccia la sofferenza; le voci che ospita appartengono ad una vasta umanità dolente, dai malati di Alzheimer ai clochards, dai tetraplegici ai morti in mare; pare che proprio nel dispiegare le sorti dei ‘diversi’ si sveli il senso ultimo dell’uomo, del poeta. Allo stesso modo, si cantano assenze che tornano come baluginii di presenza, i cari affetti scomparsi. Non vi è, però, onnipresenza del dolore; si celebrano promesse di felicità, istanti di dolcezza che costellano l’esistere come luci intermittenti. Il verso stesso è viatico per un salvifico riparo da cui osservare la piena senza lasciarsi travolgere.

Ugualmente salvifico è serbare con cura il legame con l’infinito, l’amore nei confronti della creazione come immagine del divino. Ogni essere si presta a divenire segnale dell’infinito. L’io lirico si percepisce in rapporto con il tutto e percorre ciascun livello dell’esistente, da Dio al piccolo mondo degli insetti, oltre classificazioni e gerarchie. E il riflesso di questa divinità immanente all’uomo e alle cose attraversa l’intera silloge e la fa risuonare delle eterne domande che animano la vita e la poesia.



PERAULAS IN ATUNZU


Est solu chijina de luna su silentziu

chi si accadet pius nudu

ultres sas rosas isasciadas dae sa tempesta

e s’appittu infinidu de unu chelu

chi avantzat subra sas pazinas de bidru

serradas a unu pibione de pioa isprémidu

dae sos ramos.

E si esseret ancu sa boghe tua

a toccare cun una punta de timidesa

custa òstia d’infinidu, sa lughe chi rodulat

subra sa riba de asfaltu diat essere

una sonniga chi mudat su tempu

de sas faulas in veridade.

Ma bides non durat chi su tempu de un’alidu

su numene tou leadu in acchilibriu subra

su pizu de cristallu de una sillaba chi pesaret in bolu

e repuntat un’istrappu de àera

tra s’ojos tuos e su piantu.

Oe no at pius sensu chircare s’umbra tua;

custos istantes sunt bolos de cudd’ala de mare chi

lentamente perdent cuota e imprejonantesi

tra duos emisferos de abba.



PAROLE IN OTTOBRE


È solo cenere di luna il silenzio

che si abbatte più nudo

oltre le rose scheggiate dalla tempesta

e l’attesa infinita di un cielo

che avanza sulle pagine di vetro

chiuse ad un acino di pioggia spremuto

dai rami.

E se fosse ancora la tua voce

a toccare con una punta di timidezza

questa ostia d’infinito, la luce che rotola

sulla battigia dell’asfalto sarebbe

una crisalide che trasforma il tempo

delle tue bugie in verità.

Ma vedi non dura che il tempo di un respiro

il tuo nome lasciato in equilibrio

sul filo di cristallo di una sillaba che cabra

e ricuce uno strappo d’aria

fra i tuoi occhi e il pianto.

Ora non ha più senso cercare la tua ombra;

questi istanti sono voli d’oltremare che

lentamente perdono quota e si imprigionano

fra due emisferi d’acqua.



AMMENTOS DE MANNOI

(A GIOMARIA “BILLIA” BALDINO)


                                                        Babbu-Canu istimadu

                                                          mandamilu su ’entu...

                                                                   (Antonio Palitta)


                                         No isco si ti ammentas, Billia...

                                                                   (Ignazio Delogu)


Si mi frimmo a ammentarti, non potho ismenticare

cando piseddu aspettende a tie in s’ortu

torrare dae sa binza con sas manos tuas chi

fracaiant de terra, frimmant a inghiriu a su bastone

e supra s’ispadda, in sa bertula, sa dulchesa de unu fruttu

e s’innocentzia de unu matzule de lizos

dae dedicare a sa Madonna;

cantaias tra sas laras unu flebile mutivu

casi a imitare, in segretu, sa boche de sas fronzas

o sa melodia de unu flautu a incantare sos corbos.

Oh sì, comu fiat prontu a sezzerti accante

e paraula dopu paraula impittare, comente unu puzone istraccu

a sa funte, su misteru de una vida tra sa pìuere

e su birderamen chi ti tinghiat su bestire comente a unu Arlecchinu.

Mi bastaiat pacu pro alluchere s’emotzione mia

cando mi narraias s’istoria de Santu Deormiti e de su ladru

o a sos versos chi iscorpias a memoria in sa linna.

Su tempu non passaiat mai comente

unu chelu bettiosu chi non volet diventare isteddau.

Si ti ammento, mannoi, oe chi ses passau a s’atter’ala

mi passat un belu supra s’ocros mios comente

su biazu chentza iscopu de una bumbulisca

suspendida supra su mare de sa memoria

in custu curtzu ispassiu de sa malinconia chi

mi conzedet su Babbu mannu de assimizzarti

cando una luche rara ruet comente un’asciuzu

supra su suspiru de su bentu.



RICORDI DI NONNO

(A GIOMARIA “BILLIA” BALDINO)


                                                      

                                                                            Nonno caro

                                                              mandami il vento...

                                                                   (Antonio Palitta)


                                                Non so se ti ricordi, Billia...

                                                                   (Ignazio Delogu)


Se mi fermo a ricordarti, non posso dimenticare

quando bambino ti aspettavo nell’orto

tornare dalla vigna con le mani che

odoravano di terra ferme intorno al bastone

e sulla spalla, nella bisaccia, la dolcezza di un frutto

e l’innocenza di un mazzo di gigli

da dedicare alla Madonna;

cantavi fra le labbra un flebile motivo

quasi a imitare in segreto la voce delle fronde

o la melodia di un flauto ad incantare i corvi.

Oh sì, com’ero subito pronto a sederti accanto

e parola dopo parola attingere come un uccello stanco

alla fonte, il mistero di una vita fra la polvere

e il verderame che ti colorava il vestito come ad un Arlecchino.

Mi bastava poco per accendere la mia emozione

quando mi narravi la storia di San Demetrio e del ladro

o ai versi che scolpivi a memoria nel legno.

Il tempo non passava mai come

un cielo capriccioso che non vuole diventare stellato.

Se ti ricordo, nonno, ora che non ci sei più

mi passa un velo sugli occhi come

il viaggio senza meta di una bolla di sapone

sospesa sul mare della memoria

in questo breve spazio della malinconia che

mi è concesso dall’Eterno di assomigliarti

quando una luce rada cade come un truciolo

sul sospiro del vento.



*

Fotografia © Thomas Wrede


12/07/2022

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