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Il poliedrico scrittore lucano Leonardo Sinisgalli (1908-1981) è generalmente ricordato in quanto pioniere dell’incontro tra la cultura umanistico-letteraria e scientifica; una sintesi tutt’altro che facile e scontata, soprattutto nel nostro Paese, dove certe gerarchie di valore di gentiliana memoria non sono mai state del tutto superate.

In questa sede cercherò di portare l’attenzione su un altro particolare aspetto della produzione del poeta di Montemurro, ovvero dei suoi rapporti con il mondo classico; rapporti che costituiscono una sorta di fil rouge, essendo già ben evidenti nell’opera dell’autore non ancora quarantenne, per poi culminare nella silloge Imitazioni dell’Antologia Palatina, a cui lavorò nei suoi ultimi anni di vita.


Tra il 1943 e il 1947 Sinisgalli diede alle stampe due raccolte, Vidi le muse e I nuovi Campi Elisi, i cui titoli rivelano il nutrimento apportato dall’immaginario del mito e della letteratura greco-romana.

Vidi le muse, tra i massimi esempi del contemporaneo ermetismo, lascia trapelare in alcuni passaggi una peculiare attenzione per il mondo animale (insetti compresi), in analogia con alcuni scrittori greci dell’età ellenistica; in particolare, Poesia per una mosca non può che riportare alla mente L’elogio della mosca di Luciano di Samosata. Riporto qui sotto Poesia per una cicala, che si avvicina per soggetto e toni all’epigramma greco-ellenistico (in primis ai versi di Anite di Tegea, già proposti in questa rubrica):


     Io non so cantare lo zelo
    Della formica immortale.
    Più vicino alla mia sorte
    È lo stridore della cicala
    Che trema fino alla morte.
    Nel tempo mio diletto
    Mi confidavo a quell'ira
    Insistente che mi assopiva.
    Con la cicala nel petto.
    Ora nello sfacelo
    Della mia giornata mi resta
    Un po’ di polvere in pugno,
    Ma tanto vale la tua spoglia
    Che ancora risento quel melo
    Stormire e nell’aria di giugno
    La tua allegria funesta
    Nascere dietro una foglia.


Ancora in Vidi le muse, nella seconda delle due Elegie, spicca un richiamo omerico-odissiaco, al quale si aggiungono cenni al ritualismo dionisiaco:


    Dolce compagno dove sei? I rami
    Degli alberi gemelli intrecciano
    In nitide ombre le linee
    Delle nostre due vite sulla terra.
    Io ti cerco come Ulisse cercava i suoi compagni
    Nel porcaio. Il guardiano mi dice:
    Non t'inganni il colore, il porco nero
    Occùpa, il porco bianco fa più lume.
    Ma il mio occhio è stanco e poco sagace.
    Io non sono più astuto come un tempo
    Ero con te furbo mercante ai giuochi.
    Se la luna potesse spargere, questa sera,
    Per un attimo solo, sui miei porci bianchi
    E neri come rondini il miele di Circe
    Ti ritroverei mio compagno dai denti forti.

     […]


     Dioniso torna ancora alle nostre feste
     E le donne sbattono i campani
     Per cacciare il capro dalle selve.


I riferimenti al mondo classico collaborano quindi alla rappresentazione di una terra natia caratterizzata da tratti mitici e simbolici. Nella sezione Campi Elisi (che ripropone poesie già pubblicate nel 1939) la reminiscenza mitologico-letteraria del locus amœnus (di cui parlano Omero e Virgilio) destinato alle anime beate si innesta su una dimensione familiare e privata, con l’apporto di arcaiche credenze sul nesso morte-fertilità:


    Di là dalla dolce provincia dell’Agri
    Siete approdati alle rive sognate,
    Oscuri morti familiari.
    Le vostre salme hanno dato salute
    Al verde degli orti.
    I campi di fave si sono allargati
    Oltre i cancelli:
    Dove arse superba l’età delle rose
    Le capre pestano la terra
    Nei giorni di siccità.


I nuovi Campi Elisi è una raccolta dallo stile asciutto e conciso, in cui l’allontanamento dalle modalità ermetiche si dispiega in un enunciato meno ridondante e più prosastico. Tra i vari componimenti, Epigrafe è quello che rievoca la dipartita della sorellina Sara (che non viene però nominata), con riferimenti a riti e credenze funerarie che ricalcano quelle relative al culto dei morti nell’antichità: dalla consuetudine di offrire una moneta d’oro al traghettatore dell’oltretomba, fino all’usanza di seppellire o bruciare insieme al cadavere gli effetti personali del defunto:


    Quando partisti, come è nostra usanza,
    inzepparono la cassa dei tuoi piccoli oggetti cari.
    Ti misero l’ombrellino da sole
    perché andavi in un torrido regno
    e ti vestirono di bianco.
    Eri ancora una bambina,
    una bambina difficile a crescere.
    Pure fosti accolta con rassegnata dolcezza,
    custodita e portata alla luce
    come matura la spiga in un campo esausto.

     […]


    Ti misero nella cassa gli oggetti più cari,
     perfino una monetina d’oro nella mano
     da dare al barcaiolo che ti avrebbe accompagnata
     all’altra riva. […]


     Ti avevamo messo dentro la cassa gli oggetti più cari,
     il tuo ombrellino, il tuo pettine, un piccolo mazzo di fiori.
    Mia madre ti seguiva ad ogni tappa, dalla casa
    alla chiesa, dalla chiesa al cimitero.
    Dava ricetto nella sua stanza ad ogni farfalla,
    e tenne per lungo tempo la casa aperta
    nella speranza che tu potessi tornare.

     […]


Un discorso a parte merita Imitazioni dell’Antologia Palatina, lavoro realizzato in pochi mesi nel 1978 e pubblicato nel 1980. Come ben evidenzia il titolo, non si tratta di traduzioni, bensì di ‘imitazioni’ di testi della più importante raccolta di epigrammi della grecità; Sinisgalli si discosta consapevolmente dall’intento di illustri poeti-traduttori, quali Salvatore Quasimodo e Filippo Maria Pontani, e scrive nell’introduzione di aver affrontato questa impresa in maniera non filologica, partendo da una conoscenza del greco approssimativa, da autodidatta, come «atto di devozione ai piccoli poeti di lingua greca che seppero esprimere alcune verità sfuggite ai fratelli maggiori». E ancora: «ho sentito finalmente fraterni questi poeti, anche perché in gran parte sono delle mie latitudini» (si pensi ad epigrammisti magnogreci quali Nosside di Locri e Leonida di Taranto).


In conformità con l’approccio non filologico, Sinisgalli non inserisce il testo greco a fronte, e neppure cita l’edizione critica da lui utilizzata, comunque facilmente identificabile con quella di Waltz (Les Belles Lettres, 1931). Lo specifico modus operandi del poeta di Montemurro è oggetto di dibattito tra gli studiosi. Di Silvestro ha osservato come l’opera che ne risulta sia «un confronto oscillante tra traduzione di secondo grado e libera ricreazione», mentre E. Cavallini ritiene piuttosto che Sinisgalli tenda a distanziarsi dalle traduzioni in francese di Waltz per andare incontro alle esigenze del moderno lettore italiano; perciò il testo viene sfrondato di quanto potrebbe essere avvertito come superfluo, al fine di rendere con immediatezza la comunicazione di tematiche universali.


In ogni caso, tra il materiale certamente a sua disposizione (tutto il libro VI, che contiene gli epigrammi votivi, e la seconda parte del VII, con gli epigrammi funerari dal 364 al 748), l’autore sceglie di ‘imitare’ sessantasei poesie. Ne riporto tre, dalle quali potranno emergere utili spunti di riflessione circa le possibili similarità con la sua poetica.

Dal libro VI (AP 98) viene scelto un epigramma di Diodoro Zona, reso nel modo seguente:


     A Demetra patrona delle aie

     e alle dee ausiliari

     dei battitori di spighe

     e dei separatori di pula,

     Héronax che ha appena mietuto

     il suo piccolo campo

     reca per devozione

     una canestra di umili primizie,

     spighe e legumi.

     Egli non possiede che una striscia

     Di terra sulla collina brulla.


Si tratta di versi incentrati sul tema delle messi e della trebbiatura. L’intenzionalità devozionale è rivelata dall’offerta di primizie, spighe e legumi a Demetra e ad altre divinità femminili. Rispetto all’originale greco, Sinisgalli omette il cenno alle Ore, dee delle stagioni, probabilmente perché, come nota Cavallini, riteneva fossero poco conosciute da un pubblico contemporaneo di non specialisti. È comunque evidente come, attraverso la poesia di Diodoro, torni la rievocazione del paesaggio mitico dell’infanzia, già delineato in Vidi le muse, un mondo agricolo pervaso da un alone di sacralità.

Si è sopra specificato che lo scrittore di Montemurro non disponeva della prima parte del libro VII dell’edizione Les Belles Lettres; ciò parrebbe spiegare come mai includa l’epigramma di Marco Argentario (AP VII 364) anziché quello di Anite di Tegea, di cui il primo risulta essere un’imitazione.

Qui di seguito l’imitatio sinisgalliana di Marco Argentario:


     A un grillo e a una cicala

     Myro ha dedicato questa pietra

     dopo aver sparso un pugno

     d’incenso sulle misere salme

     e pianto sommessamente

     sul rogo.


Anche in questo caso vi è un taglio rispetto all’originale greco (in cui, negli ultimi versi, si prospettava una spartizione dei due animaletti tra Ade e Persefone), presumibilmente al fine di mantenere alti il pathos, l’intensità e l’efficacia comunicativa. Va notato che la destinazione funeraria dell’epigramma si coniuga con quella particolare attenzione verso gli animali già emersa in Vidi le muse, soprattutto in Poesia per una cicala.

Riporto, infine, l’imitazione di AP VII 657 (Leonida di Taranto):


     Pastori mesti sulle cime, erranti

     dietro il gregge, in nome della Terra

     e per riguardo a Persefone,

     dea degli Inferi, accordatemi

     una piccola grazia.

     Portate le pecore a belare

     vicino a me; e seduto

     su una ruvida pietra

     qualcuno si provi a zufolare

     quando il gregge bruca.

     Nella imminente primavera

     un garzoncello torni a cogliere

     fiori nel campo per ornare

     di una coroncina

     la mia tomba.

     Venga irrorato di latte munto

     e benedetto il mio giaciglio.

     Ci devono essere scambi

     premurosi tra vivi e morti.


Cavallini evidenzia come Sinisgalli prenda qui le distanze anche dalla traduzione francese, per far meglio risaltare il valore paradigmatico del testo rispetto al rapporto di corrispondenza e prossimità tra i vivi e i morti. A tal proposito pongo l’accento su una possibile consonanza tra la richiesta formulata dal defunto in questo epigramma, «Venga irrorato di latte munto/ e benedetto il mio giaciglio», e l’usanza, ricordata in Epigrafe, di dotare il morto di quanto questi aveva amato e apprezzato durante la vita. È possibile, inoltre, che la necessità di scambi premurosi tra i viventi e i trapassati sottenda quel legame tra la morte e la fertilità centrale in Campi Elisi: «Le vostre salme hanno dato salute/ Al verde degli orti».


Questi sia pur frammentari esempi mostrano come il mondo letterario greco-romano fornisca al poeta un repertorio di immagini archetipiche a lui congeniali, nell’inesausta riflessione sulla morte e su un paesaggio mitico della memoria. Evidente allo stesso modo come, entro la ricca e variegata esperienza letteraria e intellettuale di Sinisgalli, tali immagini traccino una linea di continuità, ricorrendo in opere e in fasi dell’esistenza cronologicamente ben distanti tra loro.



*

Immagine di copertina: Joris Hoefnagel, Insetti e testa di una divinità del vento, 1590-1600 ca.


20/12/2023

Ponte alla Luna

LEONARDO SINISGALLI
E IL MONDO GRECO-ROMANO

di Francesca Innocenzi

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