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LORENZO CALOGERO
Poesie scelte

Tristezza


Tristezza che si assola

per diventar più piena

per saper parlare.



Escursione pei campi


Camminavo per infiniti campi

all’altezza del sole.

Sillabavo a pena

la canzone che mi voleva uscire

che avevo nella gola

chiusa, tappata come una gamma

di preziosi colori.

Uscivo dalla finità del tempo.

Dovevo morire

per rinascere dalla morte

sì come volevo e, non accorgendomi,

badare all’infinito

sempre presente

a quest’anima calma.


Posi la mano sul fieno ed ascoltai.



***


Sono il solitario origliere

di ciò che dorme.

Perciò scrivo con tacita mano,

l’occhio rivolto ai sonni.



La voce della poesia


Dalle lontananze

di boschi una voce viene:

suona all’orecchio: un denso

fatidico nome chiama:

non so quale, non so quale:

è quello di una spelonca

spaurita, quello

la cui eco non si può ripetere,

il cui incanto fiorì in me

in una notte d’estate

giacente su un letto

di alghe e di ulva. Il rosmarino

lanciava messaggi

nella mia anima povera

e nuda, la tuberosa e il papavero

si annientavano nella notte.

Ero con le mie preghiere:

per non veder che, per veder che?

Io dico che questa voce,

la voce della poesia,

si ripete per questi chiari

spazi stellari e riempie di sé

questo firmamento delle cose

e la lor pallida eco,

la lor voce tumultuosa

nella speranza

e la loro intransigenza

recondita ed alacre

per vederle poi sparire.

Questa è la voce

che si ripete da tempo

tuttavia immemorabile

in me.



***


L’opera

non cade mai

non si frantuma,

rimane eterna.

Gioiosa o mesta,

entusiasta e molteplice,

rimanendo immutata

ai colpi del tempo,

è testimone

di un tempo immortale.


La sua nuda fronte

rimane ferma, soda

sotto i raggi del sole che l’indora

fra pollici fissi dell’universo.


Da essa a volte cadono scintille

che indorano la bruna chioma

dei fanciulli che vanno a scuola

svegliandosi dal letargo

nel primo entusiasmo.



***


Che cos’è l’Artista?

È una rivelazione del Cielo.

Al mio tavolo scrive.

Non si vede

La sua insondabile mano

Che scruta i misteri

E gli abissi.

Un fiotto di sangue geme

Ad ogni sorsata di aria.



***


Se passibile l’eco ai confini

era invisibile segno e straniero,

dubitato da sempre, passo anch’io

dentro una lievità ombrosa, carnosa

canora rara di linee.



Angelo dorato


Nasconditi in questo bruno

tramestio di foglie: che nessuno

ci veda: tu sei l’angelo dorato.

L’acqua te cerca che sale, sale.


Alla fresca fonte ho riempito

una brocca per dissetarti,

cibarti.



***


Fragili vene a vela e l’imbarcazione

sugli albori. Dormiveglia. Cupa

e vuota faccenda e tu che muori

come una gemma del grano, quando

da una terra appena emersa,

passarono i pastori sulle acque

coi loro cupi e stanchi cuori,

e il loro viso era biondo

come le radure soffici e radenti

delle messi dei colli appena nuovi.

Come una stella appena vuota

ti mormorò una corrente

nell’azzurro e nell’immenso.

Ora odi il suono del bivacco

quando ti morsero i cavalli.

Erano da anni assiepate

queste brune fonti che ti amarono

e splendevano come vessilli multicolori.

Cambiò vela e mutò remo

questa fragile barca di colori

e i cammei si volsero dall’altre parte

ove si stendevano le brune erme pianure

della notte, come un sopito raggio

che fu tanto cortese ed amarono

gli altri uomini. Il dolore

ti svegliò la bruna voglia del solleone

sopra i biondi capelli; e i tempi,

i cammini da allora sono persi

come l’oro fa biondo l’oro vivo e sibila

i veloci raggi della luna

da ponente.



Gioia


Guardavo lontano lontano

e non so che vedevo.


Era la gioia

tramutata in pianto


(bisognava far presto

per non tormentarsi l’anima!)


Mostri oscillare nell’aria

vedevo in un gioioso andirivieni.



Rimane tra me e te


Rimane fra me e te questa sera

un dialogo come questo angelo

a volte bruno in dormiveglia

sul fianco. Non ti domando

né questo o quello, né come

da materne lacrime si risveglia

di notte il tuo pianto.


Se i tormenti sono tristi,

l’edera non è mattina o si colora.

Si vela o duole una viola

e dondola nube odorosa

su l’orizzonte lucida di brina.

Ecco quanto di tanta vana speranza resta

o fugge rapida o semplicemente,

silentemente accade.

I carnosi veli, i velli di bruma,

le origini stellate assalgono l’aria,

le tumide vene delle vie le ore.


Non l’eco rimbalza

due volte sulle rocce, su questo

prato, ove sono rosse, e, di rosso

in rosso, è vano il pallido velluto

ora rosa ora smosso.


Non si parla né triste né lieto;

e presto o tardi, perché a fior di labbro

gentilmente nel filo tenue dell’erba

tristemente lacerando si risveglia

la tua sera accanto, dolcemente

io ti domando.



***


O canto, sottilissima

vena che si fa canto,

che scorre nel cavo delle midolle

e aspira ad un’ineffabile letizia,

(porta nel suo scudo la sua morte)

gioiosa volitazione dell’anima

(chiama i passanti in alto

ché si fermino al suo passaggio)

quale da nessuno è stata mai sognata,

nei facili intrichi, schemi fallaci

ed arbitrari che l’uomo fa propri

della vita e della morte.


In un porto chiuso s’intesse

silenziosamente come s’intesse

ghirlanda di fiori

che si porta in dono ai morti

che brillano lontano

come fuggiasca pupilla di vetro,

che in lontanissime remote

lontananze s’affissa,

nell’ora in cui morte

effettivamente giunge,

e l’occhio dell’uomo guarda spetrato

in un trasognato lago di fiori.



Ombra


Polvere e fumo

veniva dagli altri caseggiati

sul nostro domestico

focolare.

L’ombra delle cose

era sulle cose nostre.

Non si poteva udire: – Via! –

Si cadeva nel vuoto,

in un giuoco

di facili ombre

multiformi.


Si ridestava l’insania della pietra.



Può darsi


Può darsi che il grido disperato del tempo ti giunga,

ma non mettere me fra le altre cose odorose.

Una rupe di silenzio sulle cime del dolore immoto

come un masso si sgretola su cui si consuma,

rovina e frana l’erba del tempo

e vagano mani ombrose. Accanto

erano i tuoi ginocchi

nei silenzi che squillano.


Altri esseri morivano

in un tempo oscuro di grano

e ti cingevano col braccio,

ti porgevano la libertà sicura

dei loro rapidi occhi.


                 E così ti lambiva

nella mano che reggeva

la dolcezza malsicura

la dolcezza del tempo

in un distico di coralli.



***


Non è sciolto il lento

taciturno svolgersi delle stagioni.

Sono risospinto indietro. Non è luogo

questo di sogni nostri. Il senso manca

di una rupe di verde vetro

e bianca e, purché il muro non sia più dolce

di un murmure odoroso, pianamente,

a frammenti, precipitosamente nella memoria

rovina e senza fine il tempo.

La pacatezza era presso un’ala.

Fuggivano vane e tacite cose!

qualcosa ch’era rimasta incerta, una bellezza

fragorosa. Ora era la bontà supina

col vento risalita via nel vespero

a qualcosa ch’era accanto,

senza meta.

               Se ancora vagando vai

tu sei sola immota sulle acque,

sulle terre che si denudano distese

alle origini; e perché opaca una fontana

non è cinta, sugli angoli

ti svegli. Non più il percorso

singolo si vela. Non più si guardano

le cose. Più preoccupata di te

è la terra coi suoi cieli. Pure

dalla nuvola alla rosa odo

la tua parola coi suoi resti e l’andare

e il venire e il probabile fluire

incerto delle tue vesti.

Certo del tuo errare

non è più sola o mesta chi ama

limpida chiarità, una tua risposta

nella sua tempesta.



***


ho rubato un filo di capelvenere

e il suo gambo è dolcissimo,

ho sentito quel che mi trattiene.



***


Sapevo, e per virtù ridotta

non giunse mai nessuno.

Ora era calmo l’ordine, l’ardire

sopra uno sghembo tondo

che tagliò il viso d’autunno

sopra un trono.

                Non hai mai visto

nulla di simile nella tua vita

oltre un contadino che, oltre le sue terre,

numerò la febbre e il pube tuo

sulle tue dita, come un tuo racconto.

Nulla era vero o questo fu vero

e fu come un intoppo.

Hai la sagoma alata densa della vita

o questa fu la strana, forse,

la strana origine del mondo.

Lorenzo Calogero nacque nel 1910 a Melicuccà, in provincia di Reggio Calabria. Laureato in Medicina e Chirurgia, esercitò la professione in maniera discontinua. Provò a stabilire contatti con poeti, riviste ed editori importanti ma senza successo, mentre la scrittura prendeva sempre più la forma di un destino e di una vocazione assoluti. La sua fu una vita interiormente tormentata e ossessionata dal pensiero della morte. Dopo due tentativi di togliersi la vita (1942 e 1956), si spense in circostanze mai chiarite nel paese natale. Il 21 marzo 1961 fu visto per l’ultima volta dai vicini di casa; il suo cadavere venne scoperto il 25 marzo, steso sul letto della sua camera. Nel 1962, anno di pubblicazione del primo volume delle Opere poetiche (Lerici), scoppiò un vero e proprio caso letterario e C. fu salutato come un nuovo Rimbaud. Poi, all’improvviso, nuovamente l’oblio. Nel 2013, un progetto di traduzione delle sue poesie (An Orchid Shining in the Hand: Selected Poems 1932-1960, a cura di J. Taylor) vinse il Premio dell’Academy of American Poets.



*

Testi selezionati da Avaro nel tuo pensiero (Donzelli, 2014), Opere poetiche I (Lerici, 1962), Parole del tempo (Donzelli, 2010), Poesie (Rubbettino, 1986)

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