ARTHUR RIMBAUD
Poesie scelte
Il male
Mentre gli sputi rossi della mitraglia
sibilano senza posa nel cielo blu infinito;
scarlatti o verdi, accanto al re che li schernisce
crollano i battaglioni in massa in mezzo al fuoco,
mentre un’orrenda follia, una poltiglia
fumante fa di centomila uomini,
– Poveri morti! Nell’estate, nell’erba e nella gioia
tua, o natura! tu che santamente li creasti!
– C’è un dio che ride sulle tovaglie di damasco
degli altari, nell’intenso e nei grandi calici d’oro,
che s’addormenta cullato dagli Osanna,
– e si risveglia, quando madri chine
sulla loro angoscia, piangendo sotto i vecchi cappelli neri
gli danno un soldo legato nel loro fazzoletto.
Sognato per l’inverno
A... Lei.
D’inverno, ce ne andremo in un piccolo vagone rosa
con i cuscini blu.
Staremo bene. Un nido di pazzi baci riposa
in qualche soffice angolo.
Tu chiuderai gli occhi, per non vedere, dai vetri
ghignare le ombre delle sere,
queste arcigne mostruosità, plebaglie,
di neri démoni e neri lupi.
Poi sentirai la guancia scalfita...
Un piccolo bacio, come un ragno folle,
ti correrà per il collo...
E tu mi dirai: «Cerca!» inclinando la testa,
e perderemo tempo a cercare quella bestia
– che così tanto viaggia...
La mia bohème
Me ne andavo, i pugni nelle tasche sfondate;
anche il mio cappotto diventava ideale;
andavo sotto il cielo, Musa!, ed ero il tuo leale;
oh! quanti amori assurdi ho strasognato!
Nei miei unici calzoni avevo un largo squarcio.
– Pollicino sognatore, in corsa sgranavo
rime. Il mio castello era l’Orsa Maggiore.
– Le mie stelle in cielo facevano un dolce fru-fru.
Le ascoltavo, seduto sul ciglio delle strade,
nelle calme sere di settembre in cui sentivo
sulla fronte le gocce di rugiada, come un vino vigoroso;
in cui rimando in mezzo a quelle ombre fantastiche,
come fossero lire, tiravo gli elastici
delle mie suole ferite, con un piede contro il cuore.
Il battello ebbro
Poiché discendevo i Fiumi impassibili,
mi sentii non più guidato dai bardotti:
Pellirossa urlanti li avevan presi per bersaglio
e inchiodati nudi a pali variopinti.
Ero indifferente a tutti gli equipaggi,
portatore di grano fiammingo e cotone inglese.
Quando coi miei bardotti finirono i clamori,
i Fiumi mi lasciarono discendere dove volevo.
Nei furiosi sciabordii delle maree
l’altro inverno, più sordo d’un cervello di fanciullo
ho corso! E le Penisole salpate
non subirono mai caos così trionfanti.
La tempesta ha benedetto i miei marittimi risvegli.
Più leggero d’un sughero ho danzato tra i flutti
che si dicono eterni involucri delle vittime,
per dieci notti, senza rimpiangere l’occhio insulso dei fari!
Più dolce che ai fanciulli la polpa delle mele mature,
l’acqua verde penetrò il mio scafo d’abete
e dalle macchie di vini azzurrastri e di vomito
mi lavò, disperdendo àncora e timone.
E da allora mi sono immerso nel Poema
del Mare, infuso d’astri, e lattescente,
divorando i verdiazzurri dove, flottaglia
pallida e rapida, un pensoso annegato talvolta discende;
dove, tingendo di colpo l’azzurrità, deliri
e lenti ritmi sotto il giorno rutilante,
più forti dell’alcol, più vasti delle nostre lire,
fermentano gli amari rossori dell’amore!
Conosco i cieli che esplodono in lampi, e le trombe
e le risacche e le correnti: conosco la sera
e l’Alba esaltata come uno stormo di colombe,
e talvolta ho visto ciò che l’uomo crede di vedere!
Ho visto il sole basso, macchiato di mistici orrori,
illuminare lunghi filamenti di viola,
che parevano attori in antichi drammi,
i flutti scroscianti in lontananza i loro tremiti di persiane!
Ho sognato la verde notte delle nevi abbagliate,
bacio che sale lento agli occhi dei mari,
la circolazione di linfe inaudite,
e il giallo risveglio e il blu dei fosfori cantori!
Ho visto fermentare enormi stagni, reti
dove marcisce tra i giunchi un Leviatano!
Crolli d’acque in mezzo alle bonacce
e in lontananza, cateratte verso il baratro!
Ghiacciai, soli d’argento, flutti di madreperla, cieli di brace!
E orrende secche al fondo di golfi bruni
dove serpi giganti divorati da cimici
cadono, da alberi tortuosi, con neri profumi!
Quasi fossi un’isola, sballottando sui miei bordi litigi
e sterco d’uccelli, urlatori dagli occhi biondi.
E vogavo, attraverso i miei fragili legami
gli annegati scendevano controcorrente a dormire!
Io, perduto battello sotto i capelli delle anse,
scagliato dall’uragano nell’etere senza uccelli,
io, di cui né Monitori né velieri Anseatici
avrebbero potuto mai ripescare l’ebbra carcassa d’acqua;
libero, fumante, cinto di brune violette,
io che foravo il cielo rosseggiante come un muro
che porta, squisita confettura per buoni poeti,
i licheni del sole e i moccoli d’azzurro;
io che correvo, macchiato da lunule elettriche,
legno folle, scortato da neri ippocampi,
quando luglio faceva crollare a frustate
i cieli oltremarini dai vortici infuocati;
io che tremavo udendo gemere a cinquanta leghe
la foia dei Behemots e i densi Maelstroms,
filando eterno tra le blu immobilità,
io rimpiango l’Europa dai balconi antichi!
Ho veduto siderali arcipelaghi! ed isole
i cui deliranti cieli sono aperti al vogatore:
– È in queste notti senza fondo che tu dormi e ti esìli,
milione d’uccelli d’oro, o futuro Vigore?
Ma è vero, ho pianto troppo! Le Albe sono strazianti.
Ogni luna è atroce ed ogni sole amaro:
l’acre amore m’ha gonfiato di stordenti torpori.
Oh, che esploda la mia chiglia! Che io vada a infrangermi nel mare!
Se desidero un’acqua d’Europa, è la pozzanghera
nera e fredda dove verso il crepuscolo odoroso
un fanciullo inginocchiato e pieno di tristezza, lascia
un fragile battello come una farfalla di maggio.
Non ne posso più, bagnato dai vostri languori, o onde,
di filare nelle scia dei portatori di cotone,
né di fendere l’orgoglio di bandiere e fuochi,
e di nuotare sotto gli orrendi occhi dei pontoni.
Sensazione
Nelle azzurre sere d’estate, me n’andrò per i sentieri,
punto dalle spighe, calpestando l’erba tenera:
sognando, ne sentirò ai miei piedi la freschezza.
Lascerò che il vento bagni la mia testa nuda.
Non parlerò, non penserò a nulla:
ma l’amore infinito mi salirà nell’anima,
e andrò lontano, molto lontano, come un vagabondo,
attraverso la Natura; – felice come una donna.
Vocali
A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali,
io dirò un giorno le vostre nascite latenti:
A, nero corsetto villoso delle mosche lucenti
che ronzano intorno a fetori crudeli,
golfi d’ombra; E, candori di vapori e di tende,
lance di ghiacciai superbi, re bianchi, brividi di umbelle;
I, porpora, sangue sputato, riso di labbra belle
nella collera o nelle ebrezze penitenti;
U, cicli, vibrazioni divine di verdi mari,
pace dei pascoli seminati di animali, pace di rughe
che l’alchimia imprime nelle ampie fronti studiose;
O, suprema Tuba piena di stridori strani,
silenzi solcati dai Mondi e dagli Angeli:
– O l’Omega, raggio violetto dei Suoi Occhi!
***
La stella è pianto rosa al cuore delle tue orecchie,
l’infinito è rotolato bianco dalla tua nuca ai reni
il mare ha imperlato di rosso le tue vermiglie mammelle
e l’Uomo ha sanguinato nero al tuo sovrano fianco.
Onta
Finché la lama non avrà
tagliato questo cervello,
questo biancoverde e grasso ammasso
dal vapore sempre uguale,
(Ah! Dovrebbe tagliarsi il suo naso,
le sue labbra, le sue orecchie,
il suo ventre! E abbandonare
le sue gambe! O meraviglia!) no;
credo che mai davvero, fintanto
che per la sua testa la lama
che per i sassi il suo fianco
che nelle sue budella fiamme
non avranno agito, il fanciullo
incomodo, la così sciocca bestia
non cesserà un istante
di ingannare di esser tradito
come un gatto del Monte Roccioso;
d’infestare tutte le sfere!
Quando la morte lo avrà, o mio Dio,
fa che s’alzi qualche preghiera!
Venere Anadiomene
Come da un verde feretro di latta, una testa
di donna dai bruni capelli molto impomatati
da una vecchia tinozza si erge, lenta e balorda,
deficiente e male in arnese;
poi il collo grasso e grigio, le scapole larghe
e sporgenti; le strette spalle gobbe e storte;
i fianchi tondi che sembrano spiccare il volo,
e sotto la pelle affiora il grasso in piatte falde.
La schiena è arrossata, il tutto ha un gusto
orribile e bislacco; si nota soprattutto, qualche
particolarità da osservare con una lente,
due profonde parole incise sulle reni: Clara Venus.
– E tutto il corpo si muove e allarga il grosso buco
disgustosamente bello per un’ulcera all’ano.
L’Eternità
È ritrovata,
Che? – L’Eternità.
È il mare
alleato del sole.
Anima sentinella,
lo sfogo confessiamo
della notte così nulla
e del giorno di fuoco.
Dai suffragi umani,
da comuni slanci
là tu ti disciogli
e voli a seconda...
Poiché da voi soli,
tizzoni di raso,
il Dovere si esala
senza dire: infine.
Là, nessuna speranza,
nessun orietur,
scienza con pazienza,
il supplizio è sicuro.
È ritrovata.
Che? – L’Eternità.
Arthur Rimbaud (Charleville 1854 – Marsiglia 1891) ebbe un’adolescenza assai inquieta e vagabonda, fuggendo più volte di casa e aderendo agli ideali comunardi. Soggiornò quindi a Parigi (1871-72) dove frequentò gli ambienti letterari legandosi a Paul Verlaine, con il quale si recò e convisse in Inghilterra (1872-73). Dopo litigi e riappacificazioni, V. fuggì a Bruxelles; R. lo raggiunse, ma si rifiutò di continuare a vivere con lui; ferito da un colpo di rivoltella dall’amico, che fu condannato a due anni di carcere, egli riprese la sua vita randagia per l’Europa, in Svezia, di nuovo in Inghilterra, in Germania, in Italia, quindi in Asia e in Africa. Fermatosi in Etiopia (1880), trascorse un decennio fra Harrar e Aden, occupato in vari traffici, anche di armi, e ormai del tutto lontano dalla sua esperienza letteraria, abbandonata a vent’anni. Ammalato, si fece rimpatriare, e fu operato di un tumore al ginocchio all’ospedale di Marsiglia, dove morì alla fine dello stesso anno.
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Testi selezionati da Opere in versi e in prosa (trad. di D. Bellezza, Garzanti, 1989)