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ANTONIO SANTORI
Poesie scelte

***


Pensi che dove essi

si muovono è l’Infinita?


(lo spazio si dilata

nel miglio e oscilla

sulla strada il grande

immenso)


Io non so più crederlo:

la loro sfida è uguale

a quella dei vapori

e del fumo

che dalle baracche

si allontanano.



***


Hai davvero con te

il suo disegno?

Vorrei stenderlo là,

dove il mais è forte

e striato di terra.

Forse il pezzo di fune

(schizzato dalla mano

incerta) disteso

nel luogo del suo

passaggio, darà

un senso visibile

alla sua morte:

l’al di là raggiunto

dal corpo consapevole,

che poi è caduto

ed ora è introvabile.



***


Forse davvero tavoli

e sedie parlano

un linguaggio

cifrato, oltremondano.

Io non so se il tempo

ha già tracciato

le svolte,

se il cammino

che resta

non sarà illimitato.



***


Darti del tu, così.

Non è strano?

Non sono strani anche

i gatti che fuggono,

qui, dentro di me,

e mi dicono: È ora?

Ci sono consigli stupendi,

a volte, negli occhi

dei gatti.

È ora di andare, lo so.

Ma dove? Qui non ci sono

porte.

Andare dove?

Io non sono la morte.



***


Il poema è un sortilegio

impossibile. Puoi vederlo

tu stesso se distogli

lo sguardo. Cerca

di capire. Tutto insiste

aspettando al di là

della parete, tutto è

da sempre disponibile

e insiste.



***


Per questo mi sognavi.

Mi sognavi distesa

come una donna prima

dell’amplesso. Ero io

l’amore? Ero io l’attesa?

Ogni volta mi sentivi

diversa ma mi chiamavi

con lo stesso nome.


Ero la tua cantina, la tua

discesa. La tua vita,

la tua morte, irrisolta.

Così la mattina ti svegliavi

in difesa della tua sorte.

Del tuo mazzo di chiavi,

delle porte che aprivi

e chiudevi, dei tuoi scaltri

colleghi. Mi lasciavi al di là.

Come una storia noiosa,

come il furto del cuore

degli altri. Al di là di te.

Come una cosa.



***


(Si aprirà la tenda di lino,

così come il piano fatale

prevedeva. La tua guancia

sarà il segno del ritiro

del carnevale, indiviso

dal suo strano filare.

Tu sarai nel barlume

della stanza, lieto inquilino)


Io, lo sai, posso solo pensarti

così, mentre fai capolino

dalla maschera bianca,

infernale. Se d’intorno la festa

rinnova il divario, io ti sono

vicina, io ti sono consorte.

Seduta, dondolando la schiena,

a graffiare il rimario.


Io continuo a filare il destino.

Tu lo sai, posso solo arroccare

lo schema, imbastire i miei vicoli

ai tuoi, aggirare il diario.

E pensarti così, mentre fai capolino.



***


e si nascondono tra le coperte

e altri disperati che si confessano e si dileguano,

dolcemente. E sempre, sempre, ogni gesto del chiarore

è un gesto dell’ombra, come lo sguardo separato

delle donne, quando aprono le gambe, lentamente.

Tutto si divincola tutto è in fuga.

Nessuno può parlare di ricordi.

La mano fasciata da un fazzoletto gigante,

legato in fretta, il soffio forte della nascita

l’ultimo giorno di dicembre, il respiro

di mio padre, nella morte vigilata,

una salvietta sporca in un ristorante.

Nessuno può parlare di ricordi.

Rimane solo il senso di uno smarrimento,

l’incredibile rifugio delle cose

che crediamo di spostare, il senso della fine,

il vero sentimento.



***


Noi stessi mancando spiegazioni ufficiali di noi

stessi nascondendo urlando il giuoco di noi

traslocanti dal paradiso di noi braccati

rimpiattati nel nostro viso.

D’improvviso. Le gambe imperiose sul selciato.

Aveva contato ritmando il tempo

che solo allora era diventato

ritmando fuggendo dèi andando chissà

nel giallo (noi fuggimmo)

e poi solo ispirando nascondendo lo iato e poi

dietro il confine logico e poi? dormendo

dimenticando essendo niente solo un segreto

del nostro fato

(noi fuggimmo) Noi fuggimmo

nel giallo spaventato.



***


Così io staccai la presa, usai gli istanti.

Nell’acqua torbida galleggiavano

fogli firmati dall’autorità competente.

Non capivo il ritardo, la marea

stava crescendo e sentivo il risucchio

dei dannati. Mi aggrappai

a una metafisica possibile, un barile

di legno che scivolava tra i non nati.

Capii che tutte le porte erano chiuse.

Solo una finestra, vicino all’occhio

della matrice cosmica, restava aperta

per guardare la Bellezza.

Tutto quanto ci è dato, pensai.

Così fui preso ai fianchi da un urlo,

da una voragine fredda e calda

che si chiamava certezza e fui

sputato sull’erba.

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Antonio Santori è nato a Montréal (Canada) nel 1961, viveva a Civitanova Marche dove è scomparso nel 2007. È stato docente di filosofia, poeta, saggista, redattore di riviste letterarie. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesia: Infinita (la conca) (NCE, 1990), Albergo a ore (NCE, 1992), Saltata (NCE, 1996), La linea alba (Marsilio, 2007).



*

Testi selezionati da Infinita (la conca) (NCE, 1990), Saltata (I Quaderni del Battello Ebbro, 2000) e La linea alba (Marsilio, 2007)

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