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Parallasse

UNA TRACCIA DESTINALE
IN ARSENIJ TARKOVSKIJ

di Neil Novello

In una sequenza di Nostalghia (1983) di Andrej Tarkovskij ascoltiamo una lettera del compositore russo Pavel Sošnovskij, un musicista russo del Settecento. Scrive a un amico lontano, Piotr Nikolaievič. Raccontato un «sogno angoscioso», emblema di un’allegoria tragica in cui Sošnovskij intuisce la scabra, cruda manifestazione della personale «realtà» di esule in Italia, il musicista confessa di patire un dolore nostalgico: «Potrei tentare di non tornare in Russia, ma questo pensiero mi uccide. Perché non è possibile che io non possa rivedere mai più nella vita il paese dove sono nato, le betulle, l’aria dell’infanzia».


Il protagonista di Nostalghia è il poeta Andrej Gorčakov. Viaggia in Italia sulle tracce dell’esule Sošnovskij. E come il musicista, è un russo esiliato. Più che un’affinità di destino, ciò che sembra esporre in boccio la loro incarnata tragedia è la comune lontananza dalla patria. Alla fine, Gorčakov non raccoglierà mai ciò che motiva la sua sosta italiana, una certa documentazione su Sošnovskij per comporre un libretto d’opera ispirato al compositore. E ciò perché, per il dolente Gorčakov, l’esilio italiano del musicista lentamente figurerà qualcosa di più di un lavoro intellettuale. Al di là dell’arte musicale, l’impronta destinale, esponendo tra Sošnovskij e Gorčakov una storia di rifrangenti esilî, genera un’immagine vertiginosa, apocalittica. Essa emerge come da un fondale di lacrime, perché il suo nome richiama un segno luttuoso. Così Gorčakov dinanzi a Sošnovskij è dinanzi anche al proprio modello. In esso, è ricapitolato il proprio volto destinale. A prevalere sulla ragione dell’arte è dunque la coscienza di sé e della propria condizione umana, perché la sua intuizione investe la totalità della vita.


A due secoli dal patimento nostalgico di Sošnovskij, reincarnando la sua tragedia, al deraciné di Nostalghia è rivelato più di un comune destino umano. Crudamente appare dichiarata l’idea stessa di una destinalità, una metafisica della storia umana, qualcosa che risalendo dal passato scolpisce il nómos universale del presente. Un nómos nella vita di Sošnovskij e Gorčakov, la prova cioè di una messa in abisso a due attori. È il riflesso di una condizione che non c’è perché o si muore al ritorno in patria, Sošnovskij in Russia si suicida, o non si ritorna in alcun luogo, Gorčakov, perché si muore a Bagno Vignoni.


C’è anche altro. In Nostalghia, oltre la rifigurazione regressiva di Sošnovskij, Gorčakov personifica l’alter ego filmico dell’autore, Andrej Tarkovskij. Come Sošnovskij, come Gorčakov, il cineasta russo è esule in Italia, in Toscana. E come per il musicista e per il poeta, nel pensiero del cineasta vibra il profilo inattingibile della propria Mutterland lontana, la madreterra ritenuta inarrivabile. Ma a differenza di Sošnovskij, che ritornerà in patria solo per morirvi di propria volontà, Gorčakov nella fictio filmica e Andrej Tarkovskij nella realtà moriranno entrambi in esilio. Il sognatore del libretto d’opera muore nella vasca (svuotata) di Santa Caterina appunto a Bagno Vignoni, quella vasca-mondo attraversata e riattraversata nello spasimo, nell’ansia di proteggere l’esile lingua di fuoco di una candela, mentre il cineasta muore nella clinica Hartman di Neuilly malato di cancro.


L’esilio, la nostalgia e la morte, nella loro ontologia metafisica disegnano il crudo profilo dell’antropologia destinale russa. Tra Sošnovskij, Gorčakov e Andrej Tarkovskij, in Nostalghia una stessa idea dell’uomo russo risale dalla cupa profondità di un Maëlstrom, dalla profondità della storia fino all’evidenza orrenda del tempo presente. Nostalghia è dunque un film autobiografico in cui il sé di Gorčakov è in emersione dall’abisso Sošnovskij. Perché la nostalgia del musicista si proietta nella nostalgia di Gorčakov, a sua volta messa in abisso in una nostalgia ancora più storica, secolarizzata si direbbe, quella inguaribile di Andrej Tarkovskij. La nostalgia figura allora un tempo di caduta tra la condizione dell’esilio e la realtà della morte.


Al di là della lettera di Sošnovskij a Piotr Nikolaievič, in un’altra sequenza di Nostalghia è messo in scena il tema della nostalgia di Gorčakov. Essa non equivale però a una malattia del ritorno ma espone più che altro la specie di una melanconia del nulla. A Mjasnoe, dove la moglie Maria, i figli, il cane di Gorčakov vivono in unìisolata baita di collina, nella luce irreale e muta dell’alba irrompe un enigmatico sussurro: «Maria». Tra il sonno e la veglia, è un flatus vocis percepito da Maria. È la voce senza corpo di Gorčakov, una voce che chiama da lontano. Ma Gorčakov non è ritornato. E a Mjasnoe, fuori di casa, tra i lembi di una nebbia a radi banchi, la famiglia è come rapita da una gioia angosciata, un’ansia panica scatenata dal lunare, inessente bisbiglio «Maria». La parola flebile e ineffabile, quasi a suturare nella sgomenta famiglia la ferita nostalgica di Gorčakov, nello sgomentante stupore per una voce assente domanda al desiderio ciò che più dolorosamente manca, la persona che non c’è. Domanda cioè il desiderio assente di una voce perduta. La melanconia del nulla appare come un cupo presagio, una scabra metonimia di morte.


Come per Maria e la famiglia in Russia, afflitti nel paradisiaco e disincantato silenzio di Mjasnoe, così accade a Gorčakov, ora dinanzi a un altro specchio, e ancora in Italia. Nel suo esilio toscano, il livido poeta russo di Nostalghia ode la voce di Maria: «Andrej». E come accade alla moglie nell’alba vuota di Mjasnoe, anche Gorčakov percepisce un brivido vocale senza persona. È il suono di una mancanza che affiora alla coscienza ferita come una presenza illusoria, inabissata. Accade allora in Nostalghia che lo specchio nostalgico tra Sošnovskij e Gorčakov, la nostalgia di Gorčakov, della moglie Maria e dei figli, nonché il rimando sentimentale, tra il cinema e la vita, nel tracciante teso dallo stesso Gorčakov alla biografia di Andrej Tarkovskij, disegni e figuri la sinopia inumana alla poesia di Arsenij Tarkovskij. Anzi, la poesia di Arsenji Tarkovskij, attraverso la voce poetico-autobiografica del figlio Andrej, calca un’impronta destinale nel film, poiché nell’opera di Andrej effonde la materia stessa della poesia nostalgica. Così Nostalghia inscena la buia luce della poesia di Arsenji Tarkovskij, l’archetipo immaginario rigenerato e proiettato nel film. Perché Nostalghia, come l’altro film designato a testimoniare l’eredità poetica di Arsenij Tarkovskij, Lo specchio, vengono da un medesimo luogo. Essi emanano dai versi di Arsenji Tarkovskij.


L’esilio, la nostalgia e la melanconia del nulla come presagio di morte, nel poeta di Elisavetgrad assumono la caratura di una metafisica, una cifra che trasmigra dalla poesia al cinema. Ma tale riflusso, che è poi l’atto di versarsi del mondo vissuto nella creazione poetica, in Arsenij Tarkovskij non si rigenera in un verso esplicito né in una confessione diretta. Non è un verso-mondo, come confessa Borges nell’Invenzione della poesia, radicato nell’«espressione», non è questa la via tarkovskijana della poesia. Perché qui la poesia appare e anzi è in una colossale «allusione». È l’omphalós immaginario di Arsenij Tarkovskij. Qui non è in scena l’esilio come destino nostalgico né la nostalgia innesca il melanconico nulla della morte. La poesia di Arsenij Tarkovskij fa dell’esilio come lontananza, della nostalgia come ritorno e della melanconia del nulla come teleologia ferale non un momento secolare, ma appunto qualcosa che ne è la matrice incarnata, la metafisica essenza, il sentimento segreto del vissuto. Esso si traduce in un clima di smarrimento, quasi uno spaesamento. È come se il poeta, nella sua vita patria avesse da sempre perduto di vista il confortante reticolo di meridiani e paralleli, le tracce della rotta esistenziale. E ciò per percepire, abitando il margine estremo che il poeta abita, un confino come status, non però nella lontananza, ma in patria. Come se la stessa persona del poeta abbia iniziato, morendo alla vita del proprio paese, a esistere, a versarsi fuori di sé come una liquefatta anima. Per la poesia di Arsenij Tarkovskij, vale qui l’icastica espressione di Marina Cvetaeva per Rainer Maria Rilke quando, alludendo al Libro dore, la poetessa coglie i segnavia di una «topografia dell’anima».


Il teatro epifanico dei versi di Arsenij Tarkovskij in Nostalghia è fissato nella sequenza che il figlio Andrej ambienta nella chiesa allagata di Santa Maria in Vittorino, presso Cotilia (Cittaducale). Un solitario Gorčakov, insolitamente ebbro, cammina in acque di risorgiva penetrando nel magico spazio del rudere sacro di Santa Maria. Qui si compie un rito di passaggio. È l’incontro di una misteriosa bambina, anzi la sua muta presenza (il suo nome è Angela). Nel solitario visitatore della chiesa diroccata è risvegliata la sua coscienza infelice. In Gorčakov vive la semovente spoglia di un abbandonato cosmico. Qualcosa che appare come un monologo, quello farfugliato da Gorčakov, assume invece il carattere di un delirio lucido sul male, la memoria, il dolore, la solitudine, la casa e la Russia. E anche, nella traslazione autobiografica di Gorčakov-Andrej Tarkovskij, sul padre lontano: «Devo andare, e vedere mio padre…». La presenza paterna, la presenza falsamente indiretta ma pulsante della poesia di Arsenij Tarkovskij, rivissuta ora come originaria cifratura poetica dell’autobiografica sentimentale, dopo Sošnovskij e Gorčakov identifica l’atto di un’evocazione, di un’apicale testimonianza. Anzi, per l’autore di Nostalghia essa è la memoria della parola paterna che viene al film, una parola rivissuta quindi come fissazione poetica di un più antico dolore, il luogo di nascita di un patimento notturno e millenario. Appartiene a Giornata d’inverno (1971-1979) il testo poetico di Arsenij Tarkovskij che Andrej introduce alla fine della sequenza di Nostalghia ambientata a Santa Maria in Vittorino:


     Si oscura la vista, la mia forza

     sono due occulti dardi adamantini,

     si confonde l’udito per il suono lontano

     della casa paterna che respira,

     dei duri muscoli i gangli s’infiacchiscono

     come bovi canuti all’aratura,

     e non più quando è notte

     alle mie spalle splendono due ali.

     Nella festa, candela, mi sono consumato.

     All’alba raccogliete la mia disciolta cera,

     e lì leggete chi piangere,

     di cosa andar superbi,

     come donando l’ultima porzione di letizia

     morire in levità

     e al riparo di un tetto di fortuna,

     accendersi postumi, come una parola [1].


L’incontro con la poesia di Arsenij Tarkovskij, l’incontro originario, rimonta appunto alla visione di Nostalghia e ai disincantati, amari versi della chiesa di Santa Maria in Vittorino. Qui, dalla perdita del mondo, dall’irrimediabile resa dinanzi alla lontananza della «casa paterna», per gemmazione il poeta-angelo («alle mie spalle splendono due ali»), appena nato già piange la perdita di sé. Chi è lontano, qui ha subito un allontanamento di mondo. Nel verso di Arsenij Tarkovskij, il poeta-angelo certifica l’accadimento di una misteriosa metamorfosi, il sovvertimento in una alterità transumana. Essa non ammette però a una rifigurazione creaturale, il poeta-angelo si è infatti involato perché nascendo ha perduto una terra che pure appariva occultata in sé. La sua però non è una memoria dolorosa del mondo repentinamente perduto. È una testimonianza assoluta perché il poeta confessa l’esistenza di un esilio patrio senza lontananza dalla patria, una nostalgia patria senza desiderio di ritorno in patria, una melanconia del nulla come condizione mortale perché essa parla della restanza in una Russia in cui l’esistenza, il vissuto si dà nella sola forma dello slontanamento.


Nella baudelairiana caduta dell’aureola, cade anche il sé del poeta, cade dunque pur abitando nel paese. «Sono colui che è vissuto nel proprio tempo / senza essere sé» di Il manoscritto (Neve imminente, 1941-1962) è una poesia dedicata ad Anna Achmatova. Qui il tempo di vita, la sua proiezione nella storia, cancella la vita ontologica rivelando nel poeta la coscienza assente di una presenza quasi astorica. Così da un sentimento di finitudine, la finitudine incarnata nel destino prescritto, il poeta-angelo cade in una fine carica di un esilio, di una nostalgia e di una melanconia senza mai abbandonare il paese. E qui sembra nascere l’essenza metafisica di un sentimento atopico. E nella parola poetica assumere un valore resistenziale, una parola che vuole durare oltre il destino («accendersi postumi, come una parola»). Attraverso la poesia, in Arsenij Tarkovskij si genera una superiore cognizione nostalgica, ciò che Mandel’štam attribuiva all’umanità del suo tempo, una forma, un’idea di «nostalgia per gli strati profondi del tempo».


Quando in Nostalghia Gorčakov non è ancora entrato nella chiesa di Santa Maria in Vittorino, nel basso fondale di uno specchio d’acqua esterno all’edificio sacro compare la candida scultura di un angelo ‘annegato’. La sua è una caduta nel film, un evento luttuoso all’inizio di un mondo. E proprio in esordio di sequenza, la caduta preannuncia, nella sua lugubre anticipazione destinale, la stessa fine del poeta-angelo che nella poesia di Arsenij Tarkovskij ha appena messo ali («alle mie spalle splendono due ali») ma ha già perduto il paese. Allora, la metamorfosi nella metafora della «disciolta cera», alla poesia come al cinema affidano il racconto di una metafisica ineffabile, uno stato di esilio, di nostalgia e una ferale melanconia trasfigurati perché incarnati non fuori ma nel paese. Il risarcimento metafisico del sentimento segreto sta nella sopravvivenza della parola poetica oltre il destino fatale del poeta. Così nella poesia di Arsenij Tarkovskij, tutto ciò che figura come resto del mondo equivale all’inattinta interezza del mondo, la materia totale di un bene proprio e inafferrabile. Esso è custodito dove più sembra più inerme, nella sopravvivente «parola» poetica. Perché essa è il verbo vivo, il solo, della poesia dopo la fine di tutte le cose. Questa della «parola», della poesia, è la condizione umana del poeta senza presente e pieno di avvenire. Tutto dunque appare racchiuso nella «parola». Perché nell’orizzonte versale il poeta proietta la totalità di un’esistenza inattuata e come perduta al mondo in vita ma affidata al beneficio glorioso della morte. Da Giornata d’inverno, l’interrogazione riguardante il paradosso di un nóstos impossibile, dall’alterità della morte prova a decrittare l’enigma della terra, il paese in cui l’essere, abitando, non ha mai abitato:


     Forse che di là, giunta la mia ora,

     alla luce di stelle tardive,

     benedetto il mistero terreno,

     potrò tornare al camposanto natìo?


Non sempre, allora, la nostalgia è l’assenza di un luogo in cui l’essere abita sé stesso. Nella poesia di Arsenij Tarkovskij, il momento nostalgico accade in presenza del luogo e l’esilio è inscritto nella condizione di un poeta lontano nella prossimità, assente nel centro. Abitare la nostalgia ed essere in esilio richiama una condizione ontologica, quella del poeta che vive un idillio solo apparente, perché dietro il risplendente volto della realtà vissuta si occulta lo scacco di un profondo, elegiaco notturno. Ed è così da lungo tempo, è così da sempre. La melanconia allora non parla la lingua della fuga, l’atto sognante di un odeporico approdo a un paese geografico. Ma sogna il paese, il mondo, la realtà del luogo nativo filtrati da un immaginario poetico, da una fantasticheria per il totalmente altro. È proprio la rêverie la via di fuga melanconica nell’alterità. È l’approdo a un paese sentimentale in cui la stessa costruzione dell’idillio, attraverso la parola poetica, è tradita da un inatteso muro di fiamme: l’alea fatale che tradisce il sogno e inceppa lo stesso meccanismo sognante del desiderio.


Nello Specchio (1974) di Andrej Tarkovskij, il testo poetico di Arsenij Tarkovskij non a caso è inserito in una sequenza in cui Natal’ja patisce a causa di un’amara assenza, la misteriosa lontananza del marito, come il patimento di Maria per Gorčakov in Nostalghia. Patisce cioè di un patimento nostalgico. Il «destino» non viene, incombe, e la sorte è alacremente all’opera per cancellare, nella ferita, il desiderio di essere sapendo di non poter mai essere:


     Dei nostri incontri ogni istante

     festeggiavamo come un’epifania,

     soli nell’universo tutto.

     Più ardita e lieve di un battito d’ala,

     per le scale correvi come un capogiro

     precedendomi tra cortine di umido lillà

     nel tuo regno dall'altra parte dello specchio.


     Quando la notte venne ebbi da te

     la grazia, si spalancarono le porte dell’altare

     e le tenebre illuminò chinandosi la tua nudità.

     E io destandomi: «Sii benedetta»

     dissi, pur sapendo che oltraggio era

     la mia benedizione: tu dormivi,

     e a sfiorarti le palpebre col suo violetto

     a te tendeva dal tavolo il lillà.

     E le tue palpebre sfiorare di violetto

     erano quiete, e calda la tua mano.


     E nel cristallo pulsavano i fiumi,

     fumavano le montagne, luceva il mare,

     e tu tenevi in mano la sfera di cristallo

     e tu in trono dormivi

     e – Dio! – tu eri mia.

     Poi ti destasti e trasfigurando

     il quotidiano vocabolario umano

     a piena voce pronunciasti tu

     e la parola svelò il vero suo significato

     e zar divenne.


     Nel mondo tutto fu trasfigurato, anche

     le cose semplici, il catino, la brocca, l’acqua

     che sta tra noi come sentinella, inerte e dura.

     Chissà dove fummo spinti.

     Dinanzi a noi si stesero come miraggi

     città nate da un prodigio,

     la menta sola si stendeva sotto i nostri piedi,

     e gli uccelli c’erano compagni di viaggio,

     e i pesci balzavano dal fiume,

     e il cielo si spalancava ai nostri occhi...


     Quando il destino seguiva i nostri passi,

     come un pazzo col rasoio in mano.


La figurale apparizione dell’«universo tutto» non è il mondo del poeta. Chi abita nel mondo vi abita a patto di una esistenza trasfigurata. E la trasfigurazione del mondo come ragione essenziale è affidata alla poesia. La parola del poeta ricrea il mondo non per creare un mondo ma per abitare il proprio luogo, la cuna di un essere straniero ovunque, veramente esiliato e nostalgico. Qui sembra affiorare il «cielo nuovo» e la «terra nuova» di Giovanni di Patmos. Qui cioè Arsenij Tarkovskij – per dirla ancora con la poesia di Marina Cvetaeva – «scopre / la legge della stella e la formula del fiore». Ogni cosa è un’epifania, poiché la stessa totalità è colta, anzi viene al momento della sua nascita. Nella trasfigurata ricreazione attraverso la parola poetica, la poesia è ipostasi a un esilio in presenza, a una nostalgia in presenza e a quella melanconia del nulla come anticipazione della morte. E tutto è assunto a titolo di un’inermità nuda e disperatamente felice.


Il «destino» con il «rasoio in mano» non cancella, attenta alla fragile rêverie. L’idillio, dunque, la trasfigurazione visionaria del mondo nella poesia di Arsenji Tarkovskij, non appare come una fuga senza coscienza, una teleologia metafisica, una levitazione sensoriale in cui il poeta affida la parola poetica al credo di un mondo inesistente. Più che ogni altra cosa, qui grava lo statuto immanente di un feroce sovvertimento, la ferita inattesa che pure accade e rivela come evento possibile addirittura una caduta oltre il tempo. «Non mi occorrono le date: io ero, e sono, e sarò» di Giornata d’inverno, nell’oltretemporale orizzonte di chi rincorre una possibile vita, perché rincorso da un «destino» minaccioso e sanguinoso, trascende il secolare per cogliere, per cogliersi nella salvazione del postumo, anzi da sempre, nel segreto del proprio dolore, vive sulla terra postumo a sé stesso.



***


Un lampioncino rosso sta sulla neve.

Chissà perché non riesco a ricordarlo.


Forse è un foglietto-orfanello,

forse è un brandello di garza,


forse è un fringuello dal petto rosso

uscito a volteggiare sulla distesa di neve.


Forse è che si sta burlando di me

il nebbioso tramonto di questo giorno dannato.



***


È il terzo dì che cade la pioggia,

rode il ghiaccio grigio

e alla cornacchia sulla betulla

lava il becco e gualcisce il piumaggio

(la pioggia passerà).

Non per nulla alla prosa

(tutto passa)

tende il cuore,

alla povera prosa sulla betulla,

sul fiume ed oltre il fiume

(quasi piangendo),

alla povera prosa

sulla carta sottomano.



***


Tremolando con la linguetta gialla

la candela si smoccola sempre più.

È così che viviamo io e te:

l’anima arde e il corpo si discioglie.



***


Non obnubilarti dagli eterei veli,

dischiusi al profondo i suoi occhi ciechi,

sentono innanzi a sé le turchine voragini.



***


Gli scacchi sono un gioco.

È ormai tempo che io muoia.



*

[1] Per questi e per quelli tratti da Lo specchio si è preferito estrapolare i versi dai film, mentre tutte le altre citazioni seguono dalla nota traduzione di Gario Zappi.


**

Immagine di copertina: William Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate, con la regia di Andrea Chiodi.


02/05/2024

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