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Odi et amo

di Giovanna Menegùs

Dichiarare il proprio odio per la poesia è liberatorio. Dato che bisognerebbe amare la poesia, odiarla risulta naturale, inevitabile. Da sempre – da molto tempo prima di leggere il saggio breve di Ben Lerner – mi capita di interrogarmi su questa singolare e imbarazzante detestabilità. Senza la lucidità argomentativa dell’autore di Topeka, Kansas, certo.

Chi pratica e frequenta la pittura, o la musica o l’architettura, difficilmente si esprimerà verso l’arte prescelta con il disprezzo e le riserve che ricorrono come un fiume grigio tanto fra poeti e sedicenti tali, quanto fra lettori comuni e non-lettori (per i quali: la poesia è noiosa; la poesia io non la capisco; bellissima questa poesia, ah, non è ancora finita; eccetera).

L’avversione per la poesia sembra in gran parte coincidere con l’avversione (retorica) per la retorica. Perché la poiesis deve, etimologicamente, fare, creare. Ma per creare usa le parole. E la sostanza fisica delle parole è soggetta a numerose contingenze. A partire dalla lingua o dialetto, che è solo la più evidente tra le dimensioni storiche e relative delle parole.


L’immagine raggiunge chiunque trapassandolo nell’intimo («Voi che per li occhi mi passaste ‘l core»), e lo stesso potere hanno il canto e la musica, per difendersi dai quali l’unico modo resta quello di Ulisse, farsi sigillare le orecchie con la cera. Per disinnescare invece il fuoco delle parole – renderle del tutto straniere e oscure o, che è forse peggio, apparentemente comprensibili e fintamente condivise: opache quanto monete fuori corso – basta cambiare un poco l’orizzonte, l’epoca storica, il contesto antropologico o culturale.

L’odio della poesia per sé stessa, una sorta di insito e antichissimo rovello autocritico, sembra identificabile nella costellazione semantica specifica alla poesia medesima che ruota intorno a ineffabile, indicibile, inesprimibile, con la conseguente insistenza sull’idea del silenzio e del tacere. Ciò sembra alludere a una peculiare difficoltà che i poeti incontrano nel proprio fare. Non esistono credo, o sono rari, termini che indichino un analogo limite strutturale in ambito figurativo, dove si manifesta se mai il contrario: il potere della pittura è tale che nella civiltà ebraica, islamica e bizantina si vieta di ricorrervi per rappresentare la figura divina. I pittori non insistono sull’indipingibile, non dichiarano di scontrarsi col non-figurabile. È probabile che questo sia semplicemente dovuto alla loro indole più pragmatica e meno verbalizzatrice, non retorica: anziché constatare (lamentare) un raggiunto limite fra intuizione, materia che preme e strumento formale a disposizione, un artista figurativo cercherà vie espressive diverse, allusive o oggettive, simboliche o astratte.


L’odio per la poesia, come Lerner illustra assai bene, ha a che fare con «il potenziale astratto di questo mezzo espressivo così come lo percepisce il poeta nel momento in cui è chiamato a cantare – e lo contrappone alla ‘poesia reale’, che per forza di cose tradisce quell’impulso nel momento in cui entra nel mondo della rappresentazione».

«La poesia non è difficile, è impossibile.»

Se fosse possibile avremmo già smesso tutti quanti di inseguirla e occuparcene, chiaro.

Poiché l’ideale non si realizza e la poesia reale non basta, dal suo interno (ovvero dal campo in cui con gran dispendio d’energie viene elaborata) si fa spesso appello ad altre arti e alle scienze, alla filosofia, alla religione. Accade così che si creino fertili contaminazioni, incroci pulsanti, irripetibili punti di equilibrio, o che ci si aggrappi a stampelle di scarsa durata ed efficacia.


Peraltro le dichiarazioni d’odio, le accuse e i certificati di morte della poesia generano sempre appassionate difese e sorprendenti prove di vita.

Ma per potersi all’occorrenza rovesciare in amore, l’odio deve essere puro, ardente. Autentico grande odio scevro di meschinità.

Il sentimento che gira nell’aria deve invece più spesso essere rubricato come malumore, frustrazione, idiosincrasia. Per la marginalizzazione della poesia e le sue piccole consorterie, perché i poeti stessi perlopiù tra loro si odiano e si rivelano esseri umani deludenti e, in ultima analisi, perché nel proprio inseguire o perseguire la poesia nessuno è davvero capace di sottrarsi a quanto di meschino tutto ciò implica.

Perché, soprattutto, non si hanno forze bastanti, luce bastante per la poesia, qualunque cosa essa per ciascuno significhi: e allora l’odio, la scontentezza sono rivolti a sé stessi, e paiono senza rimedio. Manca solo un passo allo stemperarsi dell’odio in indifferenza. Bestemmiare la poesia è pur sempre un modo per evocarla. Come con Dio, finché lo si nomina anche invano, la partita rimane aperta. Dall’odio sembra sempre di poter partire, ripartire.



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Ben Lerner, Odiare la poesia, trad. di Martina Testa, Sellerio, 2017 (ed. orig. The Hatred of Poetry, 2016)


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Immagine di copertina: Street Art, Ex Orfanotrofio ed Ospedale psichiatrico alla Marcigliana – fotografia di Mimmo Frassineti – romagraffiti.com


24/11/2020

Odiare la poesia

ODI ET AMO

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