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di Giacomo Leronni
Nel darsi come acuta e inviolabile interpretazione della realtà, la poesia deve continuamente varcare un limite: quello della convenzione. Vessillifera dell’inatteso, di ciò che scardina con la sua evidenza e urgenza l’abitudine, la costrizione a ripetersi in quanto uguali a sé stessi, la poesia non può che prendere le distanze dalle quotidiane repliche sottotono di un originale ormai perduto, non può che rifiutare ogni routine e ogni consuetudine, per aprirsi al getto di ciò che nasce come eternamente nuovo e inafferrabile. Finito e infinito, voce e silenzio, diaspora della parola in rivoli minimi che s’innervano per l’impervia eternità a cui sembriamo destinati: la poesia codifica l’incodificabile, marcisce per poi svettare come riscatto, giunge a tutte le mete senza mai conseguirne una, come accade a tutto ciò che, nella vicenda mortale, rivela quella immortale.
Un addio può dunque essere la prova di ciò che non si consuma, di ciò che chiama con nomi esatti quando gli oggetti, le forme, fissano in noi la loro vertigine e ci consentono di avanzare fra i mondi, di perpetuare le coscienze, di dire ciò che siamo stati e, contemporaneamente, ciò che saremo, ciò che torneremo ad essere. Chi non si attende questo dalla poesia vanamente ne incrocia il sentiero. E ancor più vanamente, forse, si dispone ad ascoltare altro.
A questo punto della ricerca, quando sono state scavalcate le apparenze e tutto appare o si manifesta nella sua plumbea presenza, l’occhio incoccia il male. È del tutto convenzionale, oggi, una vera e propria moda, evitare il confronto con il male. Sviare, divincolarsi, dimenarsi per fare a meno d’incontrarlo. Ma la poesia, che non sposa alcun conformismo ed è aliena da patteggiamenti, si protende a ricordarci che la questione del male è la domanda delle domande, che non può essere elusa: «… Qui non si costruisce / e non si restaura niente, questa // è l’esibizione di sabbie mobili, / una poesia del male / che doveva esser visto / perché è tra le cose // che dobbiamo sopportare». Uno dei più acuti intellettuali contemporanei, poeta e scrittore di grande levatura, Cees Nooteboom, ci consegna questi versi illuminanti nel suo ultimo volume di poesie, pubblicato tre anni fa dalla casa editrice Iperborea: Addio. Poesia al tempo del virus, pag. 49.
Nel quotidiano, serrato testa a testa con le forme del tempo, spostandoci da una piaga all’altra del giorno, provando ad attirare su di noi una luce malmessa e comunque riluttante a concedersi, noi non facciamo che scandire la nostra angoscia in un invalicabile silenzio: «… Il sasso / ascolta? Mi sente quando chiedo cosa significa? / Io me ne sto zitto, voglio sapere cosa sente e / sento il silenzio…» (pag. 59). È lì, deposto nel silenzio, il referto più autentico della poesia: una pagina che non tiene, appendice dell’ombra, tatuaggio impresso nel vento effimero della nostra umanità.
Sia dunque resa lode ai poeti che guardano dove devono guardare, senza tatticismi, remore e opportunismi di facciata. Ai poeti con il fiato corto per essersi precipitati in mezzo agli uomini, cadendo con loro, sbucciandosi le ginocchia e ferendosi alle mani. Ai poeti che sanno che il loro compito precipuo è quello di non sottrarsi, di non volgere lo sguardo dall’altra parte, dove sono apparecchiate ad arte mille falsità, dove gli spacciatori del nulla hanno sempre pronti allettanti contentini. A questi poeti, che saltano a piè pari ogni ridicola convenzione, resta pur sempre – e per quanto malferma – una luce: «… Lì non c’è più nessuno, mi resta solo / la luce che accanto a me // si muove» (pag. 69).
***
Dalle parti di Dio balbetta
la babele degli insipidi
in torsione infinita, un solco
che rincorre ostinato il successivo.
L’uomo o la donna: provano
ad infilarsi nel bosco domestico.
Le care cose del Natale
si spossano inascoltate:
un oltraggio per quello sguardo
che insiste sui mobili
come se fosse il mio
quel contorno scortato
dai maiali della solitudine.
***
La tortura di una luce
che scruta dal suo ghetto
un leopardo di commozione
che brucia sulle labbra
qui avete attinto la vostra acqua
nude, come cera d’inverno.
La desolazione, con pochi nomi
da giocare, un saluto senza memoria.
Venite ancora qui, stendete la mano
per allertare il buio, parlo per voi
che mi siete vicine nell’assenza
ombre che smistate
a perpendicolo la mia morte.
*
Immagine di copertina: Felice Casorati, L’attesa, 1918
07/03/2024