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di Angelo Di Carlo

Scrive Quintiliano all’altezza del Libro I della sua opera maggiore, l’Institutio oratoria [1]: «Resta da parlare della lettura: a questo proposito, affinché il fanciullo impari dove trattenere il fiato, in che punto fare le pause, dove finisca il senso e donde cominci, quando deve alzare e quando deve abbassare la voce, con quale inflessione di tono pronunziare ciascun elemento, che cosa esprimere più lentamente o più velocemente, con più calore o più dolcezza, non vi è altro mezzo di dimostrazione, se non nell’esercizio stesso. II. Uno solo, dunque, è il consiglio che darò, in merito, al discepolo per potere accompagnare la lettura con le inflessioni necessarie, egli capisca quanto legge».


E al di là delle reazioni entusiastiche e compiaciute che la lettura di questo testo risalente al I secolo d.C. non smette di suscitare, per via di certi tratti dalla sorprendente modernità [2], prendere le mosse dal paragrafo in questione ci consente di tentare una serie di riflessioni e considerazioni che, in qualche maniera e al fine di carpire informazioni preziose sul contesto in cui si originano, possano anche trascendere e travalicare il senso immediato delle indicazioni quintilianee che, come è noto, rientrano in un genere ben definito quale quello del manuale di pedagogia e di retorica.


Andiamo dunque per ordine. Nei paragrafi riportati sopra il retore Quintiliano sta riferendosi a quello che, con un’espressione oggi in voga e un po’ impropria, potremmo definire l’importanza della ‘resa vocalica dei testi’. Tuttavia, l’impressione di inappropriatezza può sfumare se si chiarisce che proprio la sonorizzazione dello scritto, prima di poter essere additata come una strategia didattico-pedagogica di indubbia efficacia e in grado di agevolare l’apprendimento da parte degli allievi nelle scuole di retorica, rappresentava in primo luogo un’attitudine profondamente radicata nella forma mentis dell’uomo colto romano (il litteratus, per l’appunto), e, in secondo luogo, una reazione in larga parte involontaria, dovuta alla particolare conformazione materiale dei testi e alle difficoltà di decifrazione che la ‘scrittura continua’ inevitabilmente imponeva, implicando un ritorno costante sulle medesime porzioni di testo, nonché l’ausilio imprescindibile della memoria, alla cui funzione veniva attribuita un’importanza tale da risultare difficile finanche da immaginare nell’ambito di una cultura tipografica. Insomma, per quanto risulti plausibile riuscire a intravedere tratti in comune e corrispondenze di sicuro interesse, nessun confronto può essere ammesso con le moderne pratiche di lettura ad alta voce, pena il travisamento della realtà storica e la meccanica giustapposizione di due atteggiamenti incompatibili.


Sappiamo poi da altri autori e, in particolare, da quattro corpora giunti fino a noi, della significativa diffusione di cui godettero, nella Roma antica, le letture pubbliche e, in specie, quella forma particolare di orazione che prendeva il nome di declamatio, nonché della grande attenzione che gli oratori latini destinavano alla dimensione propriamente esecutiva, la cosiddetta actio, concernente quanto esula dal dettato strettamente linguistico e che, al contrario, tenta di intercettare tutti  quegli aspetti ritenuti indispensabili per una puntuale resa espressiva dei testi, quali la gestualità o la sapiente modulazione vocale atta a enfatizzare i passaggi salienti mediante l’ausilio, ad esempio, di cambi di tono e alternanze di registro.


Quanto detto finora, pertanto, ci induce a fare la seguente considerazione: il rilievo attribuito alla dimensione sonora – e, dunque, viva, pulsante – dei testi non riguardava in maniera esclusiva le modalità di fruizione [3], ma investiva in toto il campo della testualità, esercitando una funzione tutt’altro che trascurabile anche al momento della produzione e dell’ideazione dei testi. In questo caso, dunque, la sonorizzazione della littera [4] non farebbe che riattualizzare una presenza fonica che è già, per così dire, ontologicamente parte attiva dello scritto e, in taluni casi, ne costituisce addirittura una componente essenziale: è qualcosa che intercetta l’immaginario del litteratus latino. Basti comprendere, intanto, che proprio la percezione e la contezza di trovarsi dinanzi a un pubblico di fruitori che, spesso e in larga parte, è composto da veri ‘ascoltatori’, non può essere priva di ripercussioni sulle strategie adottate dagli autori, sulla costruzione interna dei testi, non può non influire sulla stessa coscienza testuale degli scrittori e, osando un poco, sul loro immaginario.


Poi ci si potrebbe spingere oltre e affermare, ammettendo il rischio di cadere in fallo e generare qualche malinteso, che quanto riferito sopra non farebbe altro che provare la persistenza di residui di oralità all’interno dello scritto che, per una comprensione puntuale di tanto materiale testuale, non andrebbero tralasciati. Quanto ci proponiamo di dimostrare, anzi, in conclusione, è proprio la necessità di fare luce sui molteplici punti di intersezione che, in qualche modo, sembrano poter ridurre quella distanza – tra oralità e scrittura – che si vorrebbe incolmabile, focalizzandocisi su tutti quegli aspetti che, talvolta involontariamente, talaltra mediante rimodulazioni e riprese colte, dal discorso orale migrano nello scritto.



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[1] Superst lectio: in qua puer ut sciat supsendere spiritum debeat, quo loco versum distinguere, ubi cludatur sensus, unde incipiat, qunado attollenda vel summit tenda sit vox, quid quoque flexu, quid lentius celerius, concitatius lenius dicendum, demonstrari nisi in opese ipso non potest. II. Vnum est igitur quod in hac parte praecipiam, ut omnia ista facere possit: intellegat.

[2] Per quanto, spesso, strombazzata a vuoto.

[3] Di lettura, per intenderci.

[4] Si ricordino le indicazioni riferite da Quintiliano.


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Immagine di copertina: George Edward Robertson, L’orazione di Marco Antonio sul cadavere di Cesare, 1895


21/12/2022

Il tempo e la phoné

“RESTA DA PARLARE DELLA LETTURA”

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