di Alfonso Guida
La verità si chiede ad ogni età e fino alla morte. I giovani chiedono un credo, l’appartenenza a un mondo astratto che giunge sempre dal fuori. Da adulti si capisce che non esiste una verità che non sia il nostro cammino. Anzi, da adulti diventa tremendo quello che si scopre. Eri convinto che più avanti saresti andato più sarebbero aumentate le possibilità di guadagno. E invece per crescere si va a ritroso. Fino a sé stessi. Oltre non c’è niente.
Noi scriviamo per recuperare gli occhi offuscati dell’innocenza trasfigurata nel vaso profondo della sofferenza estrema, l’esperienza-limite, come la chiama Blanchot. Oggi pensavo che Cristo può essere simbolo dell’esperienza-limite. Da adulti si impara (come Cristo, Nietzsche, Genet) che solo nell’impossibile è il nostro segreto, nell’oscuro di noi, nella parola che si frantuma e rimanda a una miriade di mondi. Torna Deleuze e noi che siamo divenire di tagli, flussi, congiunzioni, disgiunzioni. Stiamo su falde minacciate dal sisma e saperlo ci mette in apnea ad ogni istante. Superare ciò che fa cadere in apnea. Come? Io credo con la lentezza celeste di Char, abbandonandosi a nuove parti di sé che reclamano di essere portate davanti a un tempio per un rito iniziatico.
La vera poesia è il rito di Eleusi, il più grande mistero del mondo. Devo combattere tra grecità (ciò che si era in un mondo antico senza pregiudizi, il mio eros) e il cristianesimo (ciò che è venuto dopo, il mio eros quale era prima che leggessi Foucault e Deleuze, l’eros colpevole, edipico). Penso che la vera poesia a lungo andare si separi da chi l’ha generata. Si allontanano i maestri di cui resta il segno. È chiaro per me. Riconosco un poeta dal suo grado di equilibrio tra orgia, idea e croce. Da queste tre scuole non si uscirà mai. L’Occidente è Empedocle, Platone e San Paolo.
[...] e accetto
la sapienza nera dell’abisso, io so
che lì devo spegnermi, che lì devo
raggiungermi [...]
In fondo vivo tutto dall’interno. Ho la mia tana e i miei passi prudenti nel mondo. Sono un animale selvatico, che esce dal suo rifugio, va in cerca, trova, e porta dentro. Poi restituisce dopo un lungo processo metabolico. La scrittura comincia dal primo boccone e finisce con la defecazione. Servono entrambi. Il primo deve nutrire, la seconda liberare.
Sono un ricercatore perché mi faccio a piedi interi labirinti. E invece di seguire solo la strada retta, la via principale, che forse potrebbe condurre a un’uscita, mi lascio tentare a ogni passo e io sento che sono nato per dire sì alla seduzione. Così percorro tutte le strade laterali dei labirinti, apro tutte le porte. Questo, nella scrittura, significa fare un discorso che non escluda niente. I contenuti di un libro si possono contraddire, e se non c’è contraddizione non c’è movimento, dialogo. Non c’è nel discorso, com’è giusto che sia, la presenza del diavolo, il solo a farci rischiare quando già sappiamo che la letteratura autentica è ferita, azzardo, quella che Bataille chiamava la parte maledetta.
C’è davvero un confine che non si dovrebbe valicare quando si scrive? O si segue un paesaggio senza orizzonti? Esistono ancora dèi in un mondo inesistente perché già nella pancia della tecnica? Il poeta ha ancora qualche rapporto col sacro? E può infrangerlo, cioè può ancora sacrificarsi, offrirsi, farsi pasto per belve? La poesia ha legami col silenzio e il silenzio ha legami col deserto e la notte; ancora una volta la dismisura. È l’assenza di parola, la parola indeterminata, che fa la parola vera.
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Immagine di copertina: Teun Hocks, Untitled
14/01/2021