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Fuoricampo

APOLOGIA DELLA DIFFERENZA.
IDENTITÀ E CREOLIZZAZIONE

di Sergio Bertolino

Siamo creoli, nessuno escluso. Noi in primis, figli del Mediterraneo in cui, citando Armando Gnisci, «le civiltà e le storie, le invasioni e le resistenze, i matrimoni e le guerre, le espansioni islamiche e le crociate cristiane, la colonizzazione fenicia e quella greca, la conquista turca e la decolonizzazione maghrebina si sono sovrapposte in un processo di accatastamento mai interrotto». Ad oggi non si può più sostenere che i sistemi culturali siano determinati in massima parte dalla nazionalità, poiché ciò equivarrebbe ad appoggiare l’ipotesi – sciocca e pericolosa – del livellamento delle identità all’interno degli stati nazionali. Vale a dire: stesso passaporto, stessa cultura.

Credere ancora nell’omogeneità è assurdo.

La globalizzazione descrive solo una parte del fenomeno: alla tendenza globalizzante se ne accompagna un’altra, sempre manifesta, che si muove verso una maggiore particolarizzazione. «Le identità transculturali – come ha scritto Wolfgang Welsch nel saggio Transculturality: the puzzling form of cultures today – comprendono un lato cosmopolita, ma anche un lato di affiliazione locale»: un gioco di forze il cui esito dipende dalla scelta del singolo che, a dispetto di categorie e generalismi, può orientarsi in senso locale (per appartenenza a una data comunità) o globale. L’individuo entra in gioco, e questo complica ulteriormente le cose. Insomma, «nella vita di tutti i giorni, non sono le culture a incontrarsi, ma i portatori di quelle culture, uomini e donne in carne ed ossa, con le loro speranze, le loro ansie, i loro progetti, i loro dubbi» (F. Susi).

Ammettere la transculturalità – da non confondersi con l’interculturalità, imperniata su un paradigma che rafforza l’antitesi Io-Altro – significa anche rispondere positivamente alle istanze attuali, sforzarsi di indicare una strada che concili, anziché dividere.


Il martinicano Édouard Glissant, poeta, saggista, ideatore dei concetti di creolizzazione e antillanità, è stato tra i primi ad aver tentato la via della conciliazione, della «non lontananza». I Caraibi – così cari a lui, che ne fece un simbolo – rappresentano un osservatorio privilegiato sui processi d’ibridazione culturale. Veri «luoghi di incontro», crogioli di eterogeneità, si caratterizzano per la compresenza di amerindi, africani, europei e indiani. L’esperienza diretta dello scrittore si è dunque convertita in un’attenta riflessione che coinvolge indistintamente tutti.


Ma cos’è la creolizzazione? Da un punto di vista antropologico, il termine designa quel fenomeno d’incrocio fra culture e gruppi etnici diversi, ma per Glissant «presuppone [inoltre] che gli elementi culturali messi a confronto debbano necessariamente essere ‘di valore equivalente’ [...] Se fra gli elementi messi in relazione alcuni vengono sminuiti rispetto ad altri, la creolizzazione non avviene. Qualcosa accade comunque, ma in un modo bastardo e ingiusto». La creolizzazione «esige che gli elementi eterogenei messi in relazione ‘si intervalorizzino’, che non ci sia degradazione o diminuzione [...] in questo reciproco e continuo mischiarsi».

Equivalenza, non neutralità di valori. Che nell’incontro-scontro fra le parti ce ne sia qualcuna che prevale o si afferma, be’, è naturale, in fin dei conti. Quando la stessa cosa, invece, si verifica per imposizione esterna, per un atto di sopraffazione, di violenza, la storia cambia: non si tratta più di creolizzazione, ma di colonialismo.


L’opera di Édouard Glissant è fondamentalmente un attacco all’Assoluto e agli assoluti, un’apologia del mistero, una difesa del diritto all’opacità e alla differenza. Accogliere le differenze vuol dire, per lui, evitare scale gerarchiche e riconoscere l’esistenza dell’Altro all’interno del proprio sistema rinunciando all’arroganza del pensiero totalizzante, alla fin troppo ingenua volontà di ghermire l’essenza delle cose.

Al mondo non vi sono culture che possano considerarsi «elementi primi». Per quanto in esse si riscontrino dei tratti specifici, non sussistono limiti chiaramente distinguibili poiché, nel flusso dei rapporti, le identità vengono di volta in volta sovvertite, influenzandosi a vicenda.

La «Relazione» funziona sia all’interno (di ciascuna cultura con i suoi costituenti) che all’esterno (con le culture che la riguardano) e le teorie, i princìpi dati per certi, crollano nel momento in cui le componenti stabiliscono nuovi legami. Succede lo stesso con le lingue – che rappresentano, forse, l’aspetto più tipico delle culture –: i sistemi linguistici sono interessati da rapporti interni (con gerghi, dialetti, altre lingue nazionali ecc.) ed esterni (con le lingue straniere) che li condizionano, li trasformano, assicurandogli tuttavia quella vitalità indispensabile ad agire efficacemente nel «concerto totale».

Che si parli di lingue o di culture, le espressioni utilizzate restano le stesse, e il disegno è coerente. Pensiero dell’erranza e pensiero della stasi, relativo e assoluto, opacità e trasparenza, Caraibi e Mediterraneo: «Questa regione [i Caraibi] è sempre stata luogo di incontro, di connivenza, e al contempo di passaggio verso il continente americano. La definirei, rispetto al Mediterraneo – che è un mare interno, circondato da terre, un mare che concentra, e che nell’Antichità greca, ebraica o latina, e più tardi con l’emergere dell’islamismo, ha imposto il pensiero dell’Uno –, come un mare che viceversa fa esplodere le terre sparpagliate ad arco. Un mare che diffrange. La realtà arcipelagica, nei Caraibi o nel Pacifico, esemplifica naturalmente il pensiero della Relazione».


Così come i Caraibi sono lo specchio di una realtà ben più ampia – una sorta di quintessenza della creolizzazione –, ogni elemento della Relazione è un’eco-mondo, un «ritrasmettitore» della totalità delle confluenze. Se ne indagassimo uno approfonditamente, saremmo in grado di gettare luce su buona parte del processo.

L’insieme degli eco-mondi – lingue, culture, individui ecc. – compone il caos-mondo in cui viviamo, ma non bisogna lasciarsi trarre in inganno: esso «non è fusione né confusione: [...] non riconosce l’amalgama uniformato – l’interazione vorace – né il nulla disordinato. Il caos non è ‘caotico’». Un ordine fluido ci governa. Bandito l’a priori, sconfessato il dogma, non c’è modo di «fissarlo» in assoluto. La sua verità sta nel divenire (avrei quasi voglia di chiamare in causa Karl Popper e il suo principio di falsificazione – «l’inconfutabilità di una teoria non è [...] un pregio, bensì un difetto» –: la pura oggettività è un’illusione, le informazioni presuppongono sempre un orientamento, un punto di vista privilegiato, che selezionando limita, commette ingiustizia, esercita un potere).


Glissant, diffidente verso le teorie inapplicabili, distingue il «pensiero dell’Altro» – che, conscio dell’inesistenza di una sola verità, di un modello dominante, si risolve nell’accettazione del principio di alterità (diritto all’opacità e alla differenza) – dall’«Altro del pensiero», senza cui «il pensiero dell’Altro è sterile». La contemplazione, il riconoscimento non basta, non porta a nulla di concreto. Serve l’azione. Ecco che al principio etico della disponibilità, dell’apertura, l’Altro del pensiero aggiunge «un’estetica della turbolenza», uno spostamento di traiettoria, che potrebbe riassumersi nella naturale inclinazione ad agire secondo il moto prodotto «dall’insieme dei confluenti», dove «ciascuno è cambiato dall’altro, e lo cambia». È in fondo la stessa distinzione che sussiste fra «com-prendere» (ossia avvicinarsi a qualcosa per appropriarsene, dirigerla ed ammaestrarla) e «con-dividere» (partecipare in senso stretto, «raggiungere una dinamica a cui concorrere», rifiutando pregiudizi e forzature): «La creolizzazione non è un mélange informe e uniforme [...] ma una successione di sorprendenti risoluzioni la cui massima sarebbe: cambio per s-cambiare con l’altro senza né perdermi né snaturarmi. La creolizzazione concepisce l’identità come radice che legittima un sistema di relazioni, simile al concetto di rizoma. La concezione occidentale di identità è stata invece quella che si riferisce a una radice unica, che esclude le altre. Da ciò deriva la comprensione negativa di ogni processo di creolizzazione, come perdita e imbastardimento».


Se – come sostiene il filosofo Jean-Luc Nancy – la verità dell’ego sum consiste nel nos sumus, è attraverso la cognizione della propria parzialità che si arriva a capire la natura relazionale delle identità, il fatto che, in effetti, esse costituiscano «sistemi interdipendenti». Il che non significa negare l’importanza del singolo, anzi: solo ammettendo unicità e differenze secondo un’ottica inclusiva in cui niente e nessuno ha il potere di imporsi sul resto, di ergersi su un piedistallo e puntare il dito contro, ci si accorge che le varie identità hanno tutte ragione di essere, e pari dignità. È il primo insegnamento che dobbiamo trarre da Glissant.

In Estasi e materia (1967) Le Clézio ha scritto: «colui che vuol essere uno è molti, e soltanto essendo molti è uno». Dal momento che non c’è «meglio» o «peggio» al di là del qui e dell’ora, e non c’è visione che sappia inglobare la «totalità dei relativi» in un paesaggio permanente, bisogna porre l’accento sull’individuo, poiché l’individualismo è il seme della tolleranza universale. Può suonare strana come affermazione, ma l’individualismo di cui parlo è l’esatto contrario del solipsismo, dell’egoismo o del cinismo modernamente inteso. Esso affonda le sue radici in un’etica della complicità – nella quale ciascuno è sostanza specifica, ma non autonoma – che fa del doppio sguardo la via maestra per l’autodeterminazione. Se l’identità si definisce sempre «in rapporto a», allora l’empatia, il co-sentire, l’interesse verso l’esterno divengono condizioni imprescindibili, le vere chiavi di accesso alla realtà interiore. Perché l’Io vuole essere contraddetto, altrimenti si annullerebbe nell’indistinto.

Il punto è scegliersi, scegliersi davvero, abbracciare la propria (fluida) differenza. Quel che è giusto per noi, non lo è meno per gli altri: così la tolleranza e la cura di sé rivelano un volto comune. La valorizzazione delle singolarità implicherebbe, quindi, un nuovo senso di appartenenza, una nuova modalità di coesistenza, forse più autentica, sicuramente più allineata con i tempi, e la consapevolezza che va riconosciuto a tutti lo stesso diritto, la stessa libertà di differire.



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Immagine di copertina: Chiharu Shiota, The Key in the Hand, 2015


02/03/2021

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