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Cavolacci riscaldati

“DOVE NON PASSA L’UOMO”.
L’ALTRO UNGARETTI

di Leonardo Tonini

Tutti conoscono – o dovrebbero conoscere – una delle liriche più famose di Giuseppe Ungaretti:


     NON GRIDATE PIÙ


     Cessate d’uccidere i morti,

     Non gridate più, non gridate

     Se li volete ancora udire,

     Se sperate di non perire.


     Hanno l’impercettibile sussurro,

     Non fanno più rumore

     Del crescere dell’erba,

     Lieta dove non passa l’uomo.


Inclusa nella raccolta Il dolore (1947), divenne immediatamente una poesia simbolo dell’Italia prostrata dalla guerra.

Pochi sanno però che il Nostro ne aveva pubblicato una prima versione nel ’43 (dopo il bombardamento del cimitero del Verano del 16 luglio):


     Poeti d’oltreoceano, vi dico:

     O compagni, cari una volta,

     Cessate l’offesa alle tombe.

     Ora che avete senza nostra colpa

     Straziato tumuli da poco chiusi,

     E sconnesso parvule croci,

     Lo scheletro, disperso, dal sarcofago,

     Universali voci,

     Infranto, nelle pietre inimitabili,

     Come farete a udire i vostri morti?

     D’ogni bene fummo a voi prodighi;

     Pensavamo a voi come agli esuli

     Della nostra famiglia.

     Nelle fole e nelle cronache,

     Se non v’arresta luce,

     Nello sterminio folle,

     Orridi apparireste,

     Del suggello umano, dimentichi.

     Dio, le prove non teme un vecchio popolo;

     Gli darai, se vuoi, spazio e pane

     Esaudendo giuste speranze,

     Ma oggi gli confermi che solo

     Dopo molte sciagure,

     Si rispetta il ricordo,

     Quando si sa che all’anima si volge

     Non avendo voce più forte

     Del crescere vago dell’erba

     Lieta dove non passa l’uomo.


Era dedicata agli ‘Americani’ che in quei mesi bombardavano il patrimonio artistico italiano senza remissione. Per motivi più che ovvi, venne fatta velocemente sparire dall’autore. Rileggendola oggi, anche volendo contestualizzare con magnanimità, certi versi risultano un tantino stridenti.


Nei paesi anglosassoni c’è un’espressione che definisce molto bene certi casi: dissonant heritage, ossia quel patrimonio artistico, urbanistico, materiale o immateriale che non risulta essere più in linea con i valori coevi. A Brescia – per fare un esempio a me geograficamente vicino – giace in un magazzino, dal ’45, un’enorme statua detta ‘il Bigio’ che raffigura in modo efficace l’ideologia del Ventennio: un muscoloso uomo nudo a gambe divaricate e genitali in vista, alto 7 metri e mezzo. Non è che in sé sia così brutto, è un documento storico e completerebbe una delle piazze più interessanti di Brescia (piazza Vittoria), ma appunto giace perché se ne fa (ancora) una questione politica e morale.


Ora, tornando ad Ungaretti, in Sentimento del Tempo abbiamo l’esplicita Epigrafe per un caduto della rivoluzione, componimento del 1935 dove la rivoluzione è intesa in senso mussoliniano. La storia del fascismo di Ungaretti è però nota: basti pensare che nel 1923 la prefazione a Il porto sepolto fu scritta da Mussolini e che il poeta fu corrispondente da Parigi per «Il Popolo d’Italia» e si autocandidò all’Accademia d’Italia quando il Duce parve dimenticarsene. L’inizio della lettera con cui chiedeva di essere ammesso ha toni epici: «Mio Duce, redattore del Popolo d’Italia nel 1919, diciannovista, chiedo l’insigne onore di non essere dimenticato nella lista di quelli che vi furono fedeli sin dalla prima ora».


Perché Mussolini l’aveva dimenticato? Semplicemente perché non sapeva che farsene di un anarchico inquieto e sanguigno, fascista sì, ma idealista. Ungaretti ci credeva veramente, non abiurò mai, anche se tenne appunto nascoste diverse cose poco spiegabili nella temperie ‘democratica’ del dopoguerra. Assolto in un processo farsa per collaborazionismo e rimesso all’Università per chiara fama, il Nostro si è gradualmente mutato nel cantore del soldato in guerra che brama la pace. Lui stesso era stato in trincea, nel fango, con un morto compagno a fianco in una notte di delirio. Lui, il soldato dal cuore che era il «paese più straziato», che ricordava nell’Isonzo i suoi fiumi, che chiedeva l’oblio «con le quattro / capriole / di fumo / del focolare».


Scrissi di queste cose in un mio libro del 2014, Ungaretti, un uomo del Novecento (Gattogrigio, 2014), che suscitò un vespaio di polemiche sintetizzabili tutte con un’unica espressione: Ma chi se ne frega se era fascista? Ed è vero. A chi può interessare che fu lui a chiedere di andare al fronte pur potendo evitarlo facilmente? o che mandava lettere a destra e a manca per avere licenze sempre più lunghe? o che la storia dei componimenti scritti in trincea non è completamente sincera?


Ma in realtà non solo ‘il peggio’ di Ungaretti è nascosto ai più. Nella mia antologia delle medie, per esempio, era contenuta una poesia – oggi trascuratissima – sul figlio Antonietto, morto a 9 anni a San Paolo del Brasile per un’appendicite non curata:


     GRIDASTI: SOFFOCO


     Non potevi dormire, non dormivi...
     Gridasti: Soffoco...
     Nel viso tuo scomparso già nel teschio,
     gli occhi, che erano ancora luminosi
     solo un attimo fa,
     gli occhi si dilatarono... si persero...
     sempre ero stato timido,
     ribelle, torbido; ma puro, libero,
     felice rinascevo nel tuo sguardo...
     Poi la bocca, la bocca
     che una volta pareva, lungo i giorni,
     lampo di grazia e gioia,
     la bocca si contorse in lotta muta...
     Un bimbo è morto...

     Nove anni, chiuso cerchio,
     nove anni cui né giorni, né minuti
     mai più s’aggiungeranno:
     in essi s’alimenta
     l’unico fuoco della mia speranza.
     Posso cercarti, posso ritrovarti,
     posso andare, continuamente vado
     a rivederti crescere
     da un punto all'altro
     dei tuoi nove anni.
     Io di continuo posso,
     distintamente posso
     sentirti le tue mani nelle mie mani:
     le mani tue di pargolo
     che afferrano le mie senza conoscerle;
     le tue mani che si fanno sensibili,
     sempre più consapevoli
     abbandonandosi nelle mie mani;
     le tue mani che diventano secche
     e, sole – pallidissime –
     sole nell’ombra sostano...
     La settimana scorsa eri fiorente...

     Ti vado a prendere il vestito a casa,
     poi nella cassa ti verranno a chiudere
     per sempre. No, per sempre
     sei animo della mia anima, e la liberi.
     Ora meglio la liberi
     che non sapesse il tuo sorriso vivo:
     provala ancora, accrescile la forza,
     se vuoi – sino a te, caro! – che m’innalzi
     dove il vivere è calma, è senza morte.

     Sconto, sopravvivendoti, l’orrore
     degli anni che t’usurpo,
     e che ai tuoi anni aggiungo,
     demente di rimorso,
     come se, ancora tra di noi mortale,
     tu continuassi a crescere;
     ma cresce solo, vuota,
     la mia vecchiaia odiosa...

     Come ora, era di notte,
     E mi davi la mano, fine mano...
     Spaventato tra me e me m’ascoltavo:
     È troppo azzurro questo cielo australe,
     troppi astri lo gremiscono,
     troppi e, per noi, non uno familiare...

     (Cielo sordido, che scende senza un soffio,
     sordo che udrò continuamente opprimere.
     Mani tese a scansarlo)


Testo dalla bellezza senza eguali, anche a livello formale, con metrica e profusione di figure retoriche (anafore, epifore, anadiplosi, ossimori...), appare come un disperato sfogo e insieme un’accusa a sé stesso per non aver impedito, in quanto padre, la morte del figlio. È di una durezza disarmante, ed è forse questo il motivo della sua scomparsa dalle antologie sempre più ‘caste’ dei nostri ragazzi.


Quindi graverebbero su Ungaretti due tipi di censura: una ‘politica’, stante una innegabile virata a destra dell’elettorato italiano, e una per scabrosità, malgrado la macelleria che vediamo quotidianamente in tv.

La prima si può spiegare col fatto, socialmente interessante, che la stessa parte politica figlia di un certo movimento (in linea con la vita del poeta) rifiuta a parole di chiamarsi fascista e rigetta l’idea di una derivazione diretta tra quel periodo storico e i giorni nostri. Un rifiuto non solo retorico, in realtà, perché la prima a voler nascondere la complessità di quell’epoca è proprio la destra sociale italiana. Ciò ricorda un po’ l’atteggiamento di Mussolini che, davanti al successo della canzone Faccetta nera, cercò in tutti i modi di bloccarne la diffusione. Il brano parla di soldatini partiti in cerca di avventura e tornati in patria con moglie eritrea e fascista – e questa non era certo la visione dei gerarchi.


La seconda forma di censura è invece strettamente legata al concetto di ‘patrimonio indigesto’. In sostanza, alcuni argomenti potrebbero turbare il giovane pubblico. È un’intenzione che rientra nel contesto più ampio della cosiddetta cancel culture, un movimento di origine anglosassone che può essere esemplificato dalla contestazione dell’uso delle fiabe dei fratelli Grimm nelle scuole materne e primarie. Si critica il contenuto di tali fiabe, ricco di dettagli macabri e situazioni ambigue, senza tener conto del fatto che, nelle fiabe e nelle leggende antiche, questa crudezza era deliberata e aveva un importante scopo educativo: introdurre i bambini alla comprensione del male nella vita e presentare, in chiave mitologica, un percorso per superarlo o sopravviverci. Al contrario, la cancel culture promuove un mondo perfetto, privo di sfide e controversie, dove tutti sorridono felici. Strategia che non pare funzioni, in effetti.


C’è da dire che Ungaretti soffre soprattutto la censura dell’ignoranza generalizzata della sua opera: i più, pure fra quelli che si proclamano estimatori, si fermano ai ricordi scolastici, al primo libro, l’Allegria, e forse a una sola sezione di esso – Il porto sepolto – e non conoscono gli altri lavori del poeta: Sentimento del tempo, Il dolore, La terra promessa, Il taccuino del vecchio, solo per citare le raccolte maggiori. Non giungono ad ammirare perle come questa:


     FEBBRAIO


     Ogni anno, mentre scopro che Febbraio

     È sensitivo e, per pudore, torbido,

     Con minuto fiorire, gialla irrompe

     La mimosa. S’inquadra alla finestra

     Di quella mia dimora d’una volta,

     Di questa dove passo gli anni vecchi.


     Mentre arrivo vicino al gran silenzio,

     Segno sarà che niuna cosa muore

     Se ne ritorna sempre l’apparenza?


     O saprò finalmente che la morte

     regno non ha che sopra l’apparenza.


O questa (nel Taccuino, dedicata alla moglie Jeanne Dupoix da poco scomparsa):


     PER SEMPRE


     Senza niuna impazienza sognerò,

     Mi piegherò al lavoro

     Che non può mai finire,

     E a poco a poco in cima

     Alle braccia rinate

     Si riapriranno mani soccorrevoli,

     Nelle cavità loro

     Riapparsi gli occhi, ridaranno luce,

     E, d’improvviso intatta

     Sarai risorta, mi farà da guida

     Di nuovo la tua voce,

     Per sempre ti rivedo.


C’è infine la falsa idea che, volendo difendere un così grande monumento, non lo si possa in alcun modo criticare. Parrà strano ma, al di là dei capolavori, Ungaretti ha scritto cose meno belle (il che è abbastanza normale), ha fatto scelte discutibili (alcune le abbiamo viste prima) e tenuto comportamenti che denotavano debolezze tipicamente umane che – almeno a me – lo rendono anche più simpatico.


Insomma, non si può negare la complessità di una figura che tanto ha segnato la letteratura italiana. E, come qualsiasi individuo, lo stesso Ungaretti ha avuto lati oscuri e momenti meno felici sia a livello personale che poetico.

Nel dizionario troviamo che la parola errare ha due significati: ‘vagare o andare alla deriva’ e ‘commettere un errore o sbagliare’. Ungaretti ci dice che errare è umano, anzi è l’umano – un cieco vagare di sbaglio in sbaglio, carico di senso.



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Immagine di copertina: Mario Sironi, La sarabanda finale, 1918


15/11/2023

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