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Cavolacci riscaldati

PASOLINI
E IL “TEATRO DI POESIA”

di Leonardo Tonini

La grande letteratura a volte nasce dalla convalescenza, dal limite tra salute e malattia, dal conflitto tra il corpo che vuole risanarsi e il desiderio di malattia dell’Io. In questa zona grigia di lotta tra Vita (mondo) e vita (volontà), che sono due modi di fuggire la morte, nasce la prassi della più profonda e sincera creazione artistica.


Pasolini ha scritto il suo teatro nel ’66 [1], tutto. Sei tragedie (Affabulazione, Calderón, Orgia, Pilade, Porcile e l’incompiuta Bestia da stile) per guarire da una brutta infezione allo stomaco «che mi ha tenuto a letto per un mese» [2]. Ci provava, con il teatro, dagli anni friulani, aveva già tradotto l’Orestiade per Gassmann nel 1960, ma gli era rimasto qualcosa di inespresso che non si decideva a nascere. Da qui forse la malattia allo stomaco, sede dell’anima per i Greci, e la lettura di Platone – nel letto di malato – che gli ha reso lucida la mente fino alla visione. Visione, appunto, di un teatro arcaico, premoderno, greco ma allo stesso tempo calato nell’attualità e nel contesto più avanzato del teatro europeo. Un teatro della parola che si contrappone al teatro del gesto o dell’urlo (alla Carmelo Bene) e al teatro della chiacchiera (il teatro borghese) che erano, nell’Italia del boom industriale, a pochi passi dal 1968, le uniche due idee di teatro possibili.


Non bisogna però fare l’errore, come è stato fatto, di pensare che Pasolini abbia voluto riprendere una funzione teatro sul modello della tragedia attica. Pasolini stesso guardava più che alla situazione italiana al contesto europeo. Non è un caso che la prima mondiale di Affabulazione sia stata diretta da Peter Lotschak nel 1973 al festival austriaco Steirische Herbst, così come non è un caso che le prime due monografie sulla sua drammaturgia siano state scritte in Germania e in Inghilterra negli anni ’80 da Jutta Linder e William Van Watson. Stando a Stefano Casi, il modello di Pasolini era William Butler Yeats che scelse i versi per obbligare attori e pubblico a un’esperienza che si allontanasse dal mero spettacolo e dai facili ammiccamenti e istrionismi del teatro borghese, per porre la parola poetica al centro della scena. Dopo Yeats il teatro in versi venne portato avanti in Europa da autori come Thomas Stearns Eliot in Inghilterra, Paul Claudel in Francia e Peter Weiss in Germania (Marat-Sade è una lettura di Pasolini convalescente) con testi che costringono a leggere seguendo un ritmo non naturale, tipico appunto della poesia. In questo modo ci si concentra sulla parola, e sulla parola poetica in particolare, evocativa e non realistica. Rompere lo schema è appunto agire sul linguaggio, cosa che oggi i più (autori e lettori) non comprendono e risultano perciò appiattiti, uniformati, e non più realmente innovativi.


Il fine di questo esperimento – portato avanti da Pasolini fino al 1968 con la messa in scena di Orgia per lo Stabile di Torino – era però ripensare, più che al teatro, al ruolo del poeta nella società industriale della fine degli anni ’60, all’alba di quella rivoluzione che sarebbe stata esplicitata per le masse nel 1968. Pasolini aveva in mente Allen Ginsberg (che lui conosceva personalmente), cioè il poeta escluso dalla società borghese che può ridiventare profeta e vate (si veda Urlo) in virtù della sua sola diversità. Un poeta maledetto non per certi comportamenti amorali, o perché ignorato.


Il cerchio partito dal teatro arcaico si chiudeva quindi con la figura del poeta interamente reietto dalla società e perciò reso di nuovo sacro perché fuori dalle leggi, in balia degli dèi. L’immagine era quella del cittadino ostracizzato e costretto all’esilio e questo compare nei versi disagevoli, inquietanti, pieni di grazia e angoscia del teatro pasoliniano.


     FIGLIO


     Ma ormai è assodato che io non sono

     Quello che tu credi: io sono come te

     Non me ne accorgo della mia giovinezza

     Mi dà vergogna, non ne parlo, credo di non averla

     La vivo in sogno. Non mi vedo i capelli.

     L’amore è una vittoria dolorosa

     Che non mi dà mai coscienza dei miei diritti [3].


I personaggi principali del suo teatro (il padre di Affabulazione, Rosaura di Calderón...) sono sì dei reietti della società – sebbene all’inizio si presentino come perfettamente inseriti – ma hanno coscienza di esserlo. Sono in un certo senso reietti proprio per la loro coscienza di esserlo, e questo è per Pasolini tipico del poeta. Il padre che uccide il figlio, Rosaura che non può uscire dal suo confinamento sociale, sono dei ribelli perché hanno compreso il giogo totalitario della realtà contemporanea. Una realtà che li accoglierebbe se non si ribellassero, non ostile a priori, ma pervasiva, perbenista, paternalista, comoda persino. Il poeta è colui che non accetta l’inganno, che è consapevole di questa nuova forma di dittatura gentile che distrugge i figli che creano lo scandalo di ribellarsi. Un poeta che appunto è solo perché persino coloro che dovrebbero essere dalla sua parte, i giovani, non lo seguono, e prima ancora non lo capiscono. Perché ribellarsi alla comodità?, dicono. Ma è appunto tale assenza di ribellione, laddove ogni generazione si è ribellata alla precedente, che secondo Pasolini marchia il segno della nuova dittatura della società dei consumi.


E, se non ignorato, il suo teatro fu senza dubbio incompreso: accuse di insostenibilità, di velleitarismo letterario, di bruttezza, i fischi del pubblico alla citata messa in scena a Torino, le stroncature dei critici. Eppure, testi così difficili sono continuamente riproposti. Penso a Ronconi e Gassman, a Valter Malosti, Andrea Adriatico, Antonio Latella e a registi emergenti come Fabio Condemi e Licia Lanera. Testi difficili, ma anche sfide per gli attori e per gli spettatori; ed è appunto ciò che oggi i poeti devono recuperare: la sfida al posto della ricerca di un facile consenso. Non scrivere per inseguire un target, ma con l’idea di creare col tempo e in virtù della potenza intrinseca della scrittura il proprio pubblico.

Questo moderno rifiorire del teatro pasoliniano non è solo frutto della fama del poeta morto tragicamente a Ostia, ma è indice di un crescente disagio che porta con sé la società odierna; un modello che fatica ogni anno di più a mantenere le promesse di una felicità per tutti. Sono appunto i giovani che trovano in Pasolini le parole che sentono mancare al discorso politico.


Il poeta ha lasciato il teatro nel 1968, dopo le critiche, valutando che un intervento sul modo di intenderlo avrebbe avuto senso solo dedicandogli l’intera esistenza. Non si può sperare di cambiare un modo di intendere le cose in pochi mesi; la battaglia dell’innovatore o dura tutta la vita o non è una vera battaglia, diceva. Eppure a lui si deve questa nuova tradizione drammaturgica (nuova almeno per l’Italia degli anni ’60), in ciò ripetendo l’esperienza di D’Annunzio, altro grande innovatore teatrale, che a proposito della Figlia di Iorio scrisse: «Tutto è nuovo in questa tragedia e tutto è semplice. Tutto è violento e tutto è pacato nello stesso tempo. L’uomo primitivo, nella natura immutabile, parla il linguaggio delle passioni elementari... E qualcosa di omerico si diffonde su certe scene di dolore. Per rappresentare una tale tragedia son necessari attori vergini, pieni di vita raccolta. Perché qui tutto è canto e mimica... Bisogna assolutamente rifiutare ogni falsità teatrale» [4].


Con il ‘teatro di poesia’ [5] D’Annunzio si oppone al teatro di prosa di ambientazione borghese all’epoca imperante, come allo psicologismo che vedremo in Pirandello, alla tragedia mancata di Cechov, al conflitto tra individuo e società di Ibsen. La sua è una proposta che anche scenograficamente prende le distanze dal modello a lui contemporaneo – confinato in salotti borghesi con fondali dipinti – per rivolgersi all’aperto, in città o nelle campagne abruzzesi.


Due spinte (D’Annunzio e Pasolini) verso il recupero della parola poetica e del senso della tragedia, opposto al dramma uniformante della società attuale, con però il secolo breve in mezzo. La figlia di Iorio (1903), la tragedia più riuscita di D’Annunzio, quella che ancora viene rappresentata, la vera opera inattuale e quindi non invecchiata, è di 70 anni antecedente alla prima messa in scena di un testo pasoliniano. Come in Affabulazione, un padre cerca di impossessarsi della potenza sessuale del figlio (Aligi) finendo da lui ammazzato [6]; come in Calderón, l’innocente (Mila) viene sacrificata per salvare la comunità. Meriterebbero uno studio approfondito le analogie e le differenze tra i due autori. A noi qui che ci muoviamo per suggestioni, basta un’eco.



*

[1] In più occasioni, ricordando male, Pasolini disse 1965. In ogni caso lavorò sulle tragedie a fasi alterne fino al 1972, sebbene dopo la prima del 1968 non cercò più di mettere in scena alcunché.

[2] «Nel ’65 ho avuto l’unica malattia della mia vita: un’ulcera abbastanza grave, che mi ha tenuto a letto per un mese. Durante la prima convalescenza ho letto Platone ed è stato questo che mi ha spinto a desiderare di scrivere attraverso personaggi. Inoltre, in quel momento avevo esaurito una mia prima fase poetica e da tempo non scrivevo più poesie in versi. Siccome queste tragedie sono scritte in versi, probabilmente avevo bisogno di un pretesto, di interposte persone, cioè di personaggi per scrivere versi. Ho scritto queste sei tragedie in pochissimo tempo. Ho cominciato a scriverle nel ’65 e praticamente le ho finite nel ’65. Soltanto che non le ho finite. Non ho finito di limarle, correggerle, tutto quello che si fa su una prima stesura. Alcune sono interamente scritte, tranne qualche scena ancora da aggiungere. Nel frattempo sono diventate un po’ meno attuali, ma allora le do come cose quasi postume»; intervista a Jean-Michel Gardair.

[3] Affabulazione, quinto episodio.

[4] Lettera a Francesco Paolo Michetti.

[5] In merito al teatro pasoliniano, tale definizione si deve a Eugenio Roncaglia: «Teatro dunque, ma anche – e nel senso più radicale – Poesia; propriamente Teatro di Poesia». Va tuttavia specificato che, nel Manifesto per un nuovo teatro, Pasolini si espresse diversamente:  «Le idee sono i reali personaggi del mio teatro: il Teatro di Parola».

[6] In Affabulazione, a essere esatti, è il padre a uccidere il figlio.


26/04/2023

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