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Verba Picta

SESSO DI CARTA

di Mary Todisco

Il confine tra la sfera del sesso, della pornografia e quella dell’arte è oggi assai labile, soprattutto nelle ricerche contemporanee – si pensi alle sculture di Koons che lo ritraggono mentre copula con Cicciolina. Ciascuno è libero di esprimere il proprio punto di vista e di formulare un giudizio in merito, senza dimenticare che l’arte ha obiettivi alti e di spessore, certo, ma che è anche legata alla realtà e ai bisogni umani.

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L’uomo costituisce la propria identità nella relazione, come già affermava Aristotele con il suo zoon politikòn: si tratta del grande tema dell’Altro, che inevitabilmente richiama quello del corpo. Essendo disposti quali corpi estesi (e vulnerabili), la nostra intimità consiste nell’essere fuori-di-sé, nel toccare altre singolarità, rinnovando, ogni volta, l’evento della creazione. Non l’Altro che attesta la riappropriazione della nostra identità, bensì l’essere-insieme in un con-tatto che presuppone contiguità e distanza, differenza e rapporto.


Ma il sesso è in primo luogo linguaggio che istituisce la possibilità (anzi la necessità) della relazione; è una porta spalancata, una modalità di essere che apre l’io al tu; in definitiva, un’energia comunicazionale. Quest’essenziale carattere linguistico della sessualità è anche il motivo profondo della sua ambivalenza. Come tutti i linguaggi, quello sessuale svela e vela, manifesta e copre, mette i corpi in connessione creando legami orizzontali, nessi affettivi, interdipendenze. C’è infatti uno scarto, mai del tutto superabile, tra la ricchezza interiore dei sentimenti e degli affetti e la loro concreta manifestazione nella donazione fisica, tra l’orizzonte indefinito del desiderio e l’esperienza sempre finita del piacere.


L’eccitazione sessuale, con la sua forza erompente e il suo singolare dominio sull’animale umano, rappresenta una turbolenza ontologica del rapporto: si pensi a Jane Birkin mentre canta «Je t’aime je t’aime / Oh oui je t’aime! / Moi non plus / Oh mon amour...». Censuratissima, bandita e maledetta dal Vaticano, proibita in mezzo mondo, Je t’aime... moi non plus – canzone pubblicata da Serge Gainsbourg nel febbraio del 1969, e dedicata a Brigitte Bardot – mette in scena l’orgasmo dell’allora compagna di Gainsbourg: lei che gode dichiarando il suo amore, lui che si sottrae non tanto al piacere quanto alla ratifica di un sentimento, diventando l’equivalente di un filmino pornografico su vinile.

«Godo! / Vieni!». L’esclamazione tocca il centro dell’enigma della pornografia, porta (‘poeticamente’) al limite della significazione, ma ancor di più manifesta una corrispondenza tra la cosa e la sua formulazione verbale. Detto altrimenti, le parole del sesso non mentono, non hanno un carattere coprente o falsificatorio. Sono vere e schiette. Parliamo per godere e godiamo per parlare – vale a dire che tra sesso e linguaggio ognuno dei due termini si sostituisce all’altro, esaurisce ed esalta l’altro.

Si può aggiungere, a questo punto, una considerazione del filosofo Jean-Luc Nancy: «Quest’uso della parola rinvia tanto alla tautologia (o meglio alla ‘tautegoria’, secondo l’espressione che Schelling usava parlando del mito) quanto al performativo: come se ‘io\tu godo\i’ facesse effettivamente godere, o almeno come se l’enunciazione appartenesse al godimento, e come se, di conseguenza, facesse dire o dirsi, così come dire o ‘il’ dire facesse godere. Da qui si dovrebbe azzardare a comprendere anche che ‘il dire’, esso stesso e assolutamente, è godimento».


Ma esiste un’altra forma di orgasmo, che porta il segno ad andare oltre l’uso della parola e sconfinare nel gesto grafico. In Le Livre blanc – scritto verso la fine del 1927 da Jean Cocteau, dove l’aggettivo bianco evoca altresì l’assenza della firma dell’autore – ciò che colpisce sono le linee e le forme che, pur nella loro semplicità, riescono a cogliere e riprodurre la totalità della situazione che l’artista aveva in mente. I suoi disegni liberano la fantasia grazie all’aggiunta di delicati particolari – come le lettere sparse sul letto accanto al soldato –, anche se nulla dell’aspetto più propriamente erotico è lasciato all’immaginazione.

Istintivo, intuitivo, raffinato e inclassificabile, Cocteau non ha mai sostato nel cono d’ombra di correnti o scuole. Ha preferito, per indole, attraversare il talento e crescere con esso. Assorbire il meglio per gustare la pienezza dell’esistenza, esplorare il piacere per tradurlo in una delle molteplici arti coltivate: non c’è, per lui, una tipologia espressiva che accolga a priori la verità meglio di un’altra. Nessuna disciplina è privilegiata ma, all’interno, è la forza della verità a modellare i canoni, a riformarli, a imprimere uno stile che il poeta-artista accoglie. La verità, ciò che il genio non cerca, ma trova già, è un’onda elettrica, che catalizza i pensieri, i gesti, i singoli elementi del processo di generazione del prodotto artistico, indirizzandoli verso una costellazione di segni e di significati.


     INVITO


     Gonfia in dura pannocchia di raso i bicipiti

     O stradino di bronzo e sotto l’umida ascella

     Esibisci il pelame e più in basso di quella

     Là dove s’allunga la fava in un braccio di bimbo

     Tra brune e pallide macchie o irresistibile invito

     A questo braccio attaccarsi ove gravida pende

     La doppia sacca dell’oro da cui mia sorte dipende

     Quando il braccio si drizza e diventa una piva

     Metti in bocca la tromba e d’amore la carica suona

     Verso il cielo contempla il cazzo i cordami scazzare

     Non sembra forse dal fondo dei tempi montare

     L’infecondo liquore da cui il glauco getto zampilla.


Tutto diventa narrazione, e la narrazione è pure attesa, sospensione, rimando, desiderio. Il pensiero e la scrittura attraversano spavaldamente quel crocevia dove il corpo (si) fa sesso e il sesso prende corpo, la cui prima ambizione non è la descrizione/spiegazione né la comprensione analitica di quel che accade ma l’intrattenimento sapiente del pensiero su quell’accadere. Incontra ciò che non può incontrare, accede all’inaccessibile e tocca sé stesso in un movimento di ripiegamento.


L’omosessualità sciocca meno, però continua a interessare. Parlare di essa permette agli eterosessuali di mostrarsi aperti, liberali, moderni, e agli omosessuali di testimoniare, rivendicare, militare:


     Ti leccavo tra le sporche lenzuola.
     Esploravo il tuo corpo, sommerso
     rifugio al mio sesso rifiutato
     era morbido il tuo corpo, tenero
     rifugio inquieto, veloce
     a penetrare nel mio corpo

     Ora non mi bastano i battuti
     lungo il fiume, gracili pescatori,
     possibili assassini, infingardi
     e mutanti posizione, nel letto;
     tu mi manchi in spirito
     e dolcezza primitiva,
     sesso piegato, fresco
     ragazzo come cibo
     da mangiare avidamente.


Eccolo il cacciatore di corpi, Dario Bellezza, incapace d’imbastire relazioni durature, incline a considerarsi diverso rispetto alla borghesia imperante. Il poeta reietto, il ripudiato, l’icona dello scandalo. Non c’è posto per lui, è incollocabile, scomodo. Per Bellezza la cesura è netta: tra il poeta e la società del suo tempo l’unico ponte percorribile è quello, pericolante, della poesia (ogni altra comunicazione è interrotta). Pur cercando la solitudine – la torre d’avorio byroniana che nella tradizione romantica è insieme faro e prigione del poeta, punto d’osservazione privilegiato e vertigine estrema del distacco – Dario non riusciva a stare da solo; l’atopia del desiderio è legata al posto, al vuoto che esso occupa, sotto forma di metonimia, nella dialettica in cui è implicato poiché sospeso a una catena significante. Il supporto della catena che articola una domanda inconscia è stato rinvenuto da Freud nella pulsione di morte e nell’automatismo di ripetizione, responsabile del carattere eccentrico del desiderio.

Tra amore e morte troneggia quello che Bellezza chiamava «lo stazionario», l’efebo di strada, marchettaro di Casal de Pazzi, di Valle Giulia o di Monte Caprino. Non è fascinazione ma ossessione: l’idolo burino dal corpo baldracco è figlio di una Roma caleidoscopica. «Mi ributto in piedi alla stazione / sempre più non sposato e vanamente proteso / alla caccia di te preteso urlo scatenato / della mia martire voglia di morire / impiccato. Espio se pago un amaro pedaggio / alla tua banda che qui staziona». Il seme primigenio da cui germina la lirica di Dario, direi quasi il punto di partenza della sua indagine e ricerca poematica, è costituito dalla corporeità. Non corporeità astratta, intesa come idea, quasi come materialità trascendente, ma corporeità in quanto tale, sintesi di un mondo sensazionale ed emozionale, fonte di rivoli di carne e di sangue, di vita e di morte, di estasi e di abbrutimento.

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Appena appare il desiderio, le cose si complicano. Come suggeriscono le teorie di Sartre e di Hegel, esso comporta necessariamente una relazione tra il soggetto desiderante e l’oggetto desiderato. La lettura, in chiave esistenziale, del conflitto tra le due autocoscienze da parte di Alexandre Kojève è alla base della formulazione lacaniana secondo cui «il desiderio è il desiderio dell’altro». Il desiderio non è dunque solo legato all’altro: l’essenza del desiderio sta nel desiderare il desiderio dell’altro, cioè desiderare che l’altro ci desideri. Il desiderato è il desiderante nell’altro, ma ciò può avvenire solo se il soggetto è posto come desiderabile (ecco il contenuto della domanda d’amore). La principale ambivalenza di ogni domanda risiede in un’implicita volontà d’insoddisfazione: la domanda, infatti, non può essere esaudita senza che il desiderio si estingua. Tale dinamica consente di comprendere perché la natura dell’altro sia assimilata a quella dell’oggetto.


Le ultime pubblicazioni di Dario Bellezza, Nozze col diavolo (1995) e Il poeta assassinato (1996), celebrano il sodalizio fatale tra vittima e carnefice, la congiunzione tra piacere e dolore, tra bisogno di godere e necessità di espiare: «Era lui il mio peccato radioso, il mio pericolo supremo, la mia morte. [...] Avevo amato l’orrore, il male, il nemico, il diavolo; avevo amato la morte che promanava». Il poeta fissa il bel volto dell’amato demone nel tentativo di esorcizzare la sua ossessione; i tratti fisiognomici dell’efebo malandro sfumano dolorosamente in quelli della madre del poeta: «Madre, per quanto gli altri poeti / ti hanno esaltato e onorato / io, degenere figlio, non ti assolvo. / Nella impura angoscia di sapermi / figlio da te generato a questa brutale / diversità, piango la tua solenne / maternità».

La parola viene qui a mostrare l’immostrabile, oppure sottolinea che c’è un eccesso di mostrabile. L’uomo è un animale che conosce la nudità, che spogliandosi mette allo scoperto i termini stessi del rapporto.

«Anche le parole hanno il coito interrotto», scrive Roffi in Reattivi. Del resto, per chi esalta nella poesia le componenti visuali e sonore, le parole sono materia palpabile; sono corpo e tempo che si fondono in un unicum tangibile. Isolate in spazi autoriflettenti, esse rasentano dapprima il silenzio, per poi precipitare (armonicamente ed eroticamente) l’una nell’altra.


Far emergere una poietica complessiva che rispetti le personalità e le direzioni di ricerca individuali, vuol dire collocare il vasto movimento delle poesie visuali nel più ampio orizzonte degli studi sul linguaggio. Il confronto è con la ricerca linguistica perché è con questa che i nuovi poeti si sono confrontati: l’intuizione e la creazione erano al servizio di un progetto; sperimentare significava riuscire a fare del linguaggio un laboratorio di esperienze verificabili. Bisognerebbe indagare il confine tra arte e poesia (periodicamente messo in discussione) su cui non sono molto d’accordo gli stessi poeti-artisti che hanno fatto la storia di un movimento globale nelle sue più diverse articolazioni. Nel secondo dopoguerra Poesia concreta, Poesia visiva e Letterismo si sono messi alla ricerca di una scrittura totale, facendo franare ogni codice e convenzione.

Gli esordi di Vito Acconci, artista italoamericano, si caratterizzano per l’interesse verso una poesia sperimentale tesa al ‘raffreddamento’, a una radicale neutralizzazione lirica votata a una specializzazione della scrittura, secondo modalità attigue a quelle condotte dagli operatori statunitensi. Language to Cover a Page documenta un momento chiave nell’intersezione, senza precedenti, di artisti e poeti alla fine degli anni ’60, come si evince nella serie di mostre Language della Dwan Gallery (1967-1970) e nel diario di Acconci Da 0 a 9.

Infatti, quando si sposta dalla scena della poesia al mondo dell’arte, Acconci tenta di esplorare la scrittura come atto in sé, di adoperarla quale strumento di perimetrazione topologica del foglio, mediante un uso esasperato e parossistico dei segni d’interpunzione:


     (here) (               ) (          )

     (       ) (there) (                                   )

     (       ) (                        ) (here and there – I say here)

     (                                          ) (I do not say now) (                             )

     (I do not say it now)(                                )(                                              )

     (                              ) ( then and there -- I say there) (                                )

     (                                              ) (                               ) (say there)


Il punto di rottura con la tradizione riguarda, in questo caso, la funzione referenziale dei segni grafici che compongono fisicamente il testo poetico. I concretisti ritenevano che tale funzione fosse ben lungi dall’esaurire la carica comunicativa del segno, proponendo in termini saussuriani uno spostamento dell’attenzione dal significato al significante, cercando di esplorare le potenzialità insite nel materiale poetico. La fisicità con cui viene trattata la parola fa apparire del tutto coerente il passaggio di Acconci dalla scrittura all’attività performativa (va infatti rilevato come già nel 1967 lui utilizzi il termine ‘performance’ in riferimento al proprio testo incentrato sull’attività articolatoria e gestuale dello scrittore stesso).


Acconci sperimenta la propria epidermide con i suoi tasks suppliziali in Seedbed, performance realizzata allo Sonnabend Gallery di New York nel gennaio del 1972. In quest’azione, muovendosi sotto una rampa e masturbandosi strenuamente per sei ore al giorno, nascosto alla vista del fruitore, instaura e intrattiene uno stretto e prolungato contatto con il proprio corpo al fine di abbandonarlo, staccarsene, trovando nell’eiaculazione una possibile via di allontanamento. Qui il ‘toccare’ (toccarsi, accedere all’inaccessibile) è proprio dell’immaginazione: presentazione sensibile o schema trascendentale. Il concetto va dunque ad abbracciare, di colpo, immaginazione, presentazione e sensibilità.

Si sta parlando della ‘messa in opera’ di una situazione psicologica dove il corpo è incapsulato nel monitor-specchio, dando luogo a una serie d’investimenti libidinali nei quali l’artista è riletto e ricostruito come soggetto e oggetto dello sguardo, in una sorta di feedback claustrofobico. Il soggetto e il significante sono in un rapporto fondamentale e il desiderio s’iscrive nella catena inconscia sulla base della metonimia che marchia il soggetto del linguaggio. Denudarsi equivale a esporsi come immagine, trasferire ogni profondità sulla superficie corporea perché «il mondo è composto proprio e soltanto di superfici su superfici» (così come accade con la Betsabea di Rembrandt, la cui intimità è violata dal nostro sguardo mentre lei medita sul significato di una lettera dal contenuto per noi indecifrabile). Il suo essere-in-sé consiste nel suo essere-fuori-di-sé, ex-statico, emblema della nudità che è la pura, seppur transitoria, esposizione della superficie del senso, esibizione evanescente, effimera, che include pure l’esperienza del dolore.


Già Paul Valéry sosteneva che «la profondità dell’uomo è la sua pelle»: l’esperienza della nudità sembra allora rinviare a un sapere della superficie, a una cognizione dell’immanenza singolare, a un pensiero della carne dotato di un attributo relazionale o comunitario. La pelle ricopre e allo stesso tempo espone: pelle come luogo di chiusura e di contatto, pelle dalla duplice funzione d’involucro e autentica estensione esposta.

La nudità chiama e risponde soltanto all’appello della propria intensificazione. Chiede di essere più nuda, più che corpo, qualcosa che concentra nell’estremo di un’eccitazione. La nudità non è mai definitiva: apre a una successione indefinita di denudamenti, sia nel senso che c’è sempre un’altra nudità al di sotto, sia nel senso che il corpo – una volta denudato – chiede ancora nudità ed eccitazione. Quale che sia la direzione, è l’aspetto interminabile del desiderio a essere in gioco. Il piacere non lo interrompe: gli dà un ritmo e lo rilancia: «L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perché è ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita» (Giacomo Leopardi, Zibaldone).



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Immagine di copertina: Luigi Ontani, Leda e Cigno, 1975


16/02/2021

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