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Verba Picta

“LABORINTUS”.
NELLA FUCINA CREATIVA
DI SANGUINETI

di Mary Todisco

«[Il musicista] può scoprire nella parola poetica significati nascosti e inattesi: può esplorare territori non musicali e dar loro un senso musicale contribuendo quindi alla ricerca poetica» (Luciano Berio).


All’inizio degli anni Sessanta le teorie di Boulez sulla composizione e la sua critica dell’iperspecializzazione esercitano un’influenza diretta nel dibattito sul futuro della letteratura italiana. Come evidenziato da Giovanna Lo Monaco, molti autori sperimentali del secondo dopoguerra si avvicinano al teatro non da drammaturghi, ma da librettisti. Tra questi anche tre Novissimi, i quali – come Boulez – sono profondamente affascinati dalle possibilità creative offerte dalle altre arti.

Nel 1959 Elio Pagliarani collabora con il compositore seriale Angelo Paccagnini all’opera sperimentale Le sue ragioni. Nanni Balestrini e il matematico e compositore Vittorio Fellegara firmano insieme il balletto Mutazioni, che debutta nel 1965. Sanguineti, che condivide con Boulez l’ammirazione per Klee, è interessato a cimentarsi in nuove pratiche di scrittura che dialoghino con la musica o la pittura, e sovvertano le idee convenzionali di leggibilità.


Ma c’è un particolare sodalizio su cui vale la pena soffermarsi: «l’incontro artistico tra Sanguineti e Berio avviene quasi naturalmente per una profonda affinità poetica» (Lo Monaco, Dalla scrittura al gesto, Prospero, 2019, p. 260). Berio legge Laborintus nel 1961 e subito decide di scrivere al suo autore, chiedendogli di farne un libretto. Meno di due anni dopo, Sanguineti e Berio daranno vita a due collaborazioni artistiche ambiziose, quasi contemporanee.

Passaggio. Messa in scena di Luciano Berio ed Edoardo Sanguineti va in scena alla Piccola Scala di Milano il 7 maggio 1963, sotto la direzione di Virginio Puecher. Ed è qui che il materiale verbale sviluppa una propria specificità, non più nel senso dell’autonomia, ma in quello dell’interferenza, facendosi strumento duttile di una sensibilità rinnovata. Un paio di settimane prima, il 18 aprile 1963, il balletto sperimentale Esposizione debutta alla Fenice di Venezia.


Entrambe le opere sono il risultato di un’intensa collaborazione tra Berio e Sanguineti, con l’appoggio di altri artisti interessati al progetto. Sanguineti, che ha una certa familiarità con la composizione, scrive i libretti direttamente in notazione musicale e si appassiona alla pratica creativa di Berio. Il compositore a sua volta comprese ben presto che la progettualità non poteva essere racchiusa negli angusti spazi del formalismo, ma doveva coesistere con differenti discipline, colloquiare con l’ascoltatore allo scopo di realizzare un’opera plurale. Fin dagli anni giovanili ‘cerca’ la poesia: nel 1945, a vent’anni, compone una cantata per soprano e orchestra sull’Annunciazione di Rainer Maria Rilke. Non intende impartire una lezione ex cathedra, ma piuttosto promuovere un’autentica cooperazione fra compositori e poeti.

Se Cathy Berberian è la voce in musica di Berio, Sanguineti è la sua mano poetica. «Ho sempre amato Sanguineti», dichiara il compositore in una pagina di diario.

Berio, fra i molti meriti che riconosce a Sanguineti, ne coglie uno in particolare: l’aver portato il ‘non poetico’ in poesia. Pur non precisando che cosa sia il non poetico sanguinetiano, lo sottintende in modo comunque chiaro: ciò che è apparentemente non poetico in Sanguineti diventa poetico al di là di ogni schema precostituito, sia creativo sia critico, essendo Sanguineti un unicum. «Se io fossi un poeta, vorrei essere Sanguineti», afferma Berio. Il poeta genovese, che da ragazzo desiderava diventare musicista, contraccambia: «Se io fossi un compositore, vorrei essere Berio». I due insomma si sovrappongono, come nel fotomontaggio di Gisela Bauknecht.

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Da questa stretta collaborazione nasce anche Laborintus IIprimo brano nella storia della musica elettronica preregistrato su nastro magnetico con la voce e gli strumenti ‘live’ –, con un testo che non è quello del celebre poemetto, ma un nuovo Laborintus, considerato da Sanguineti un seguito del primo. La composizione, che è una sorta di mappatura delle passioni sanguinetiane (da Dante a Ezra Pound e T.S. Eliot, dai riferimenti biblici alle Etimologie di Isidoro di Siviglia), rientra in quelle operazioni di citazione-riscrittura definite dall’autore ‘travestimenti’. La gestualità e l’esplorazione del testo – che a un certo punto viene addirittura distribuito assegnando le consonanti a una voce e le vocali a un’altra - esplicitano un ulteriore aspet­to in cui Berio e Sanguineti si scoprono sodali: l’interesse per quel prodigioso fenomeno che è il suono che diventa significato, letterario o musicale che sia: è l’ine­sauribile gamma di sfumature di senso dell’espressione pre­verbale (ma si potrebbe dire anche infraverbale), il carico di senso che si annida sotto o trascende il signi­ficato, originato dal fatto che il senso della parola non giace solamente nel suo significato ma anche nella concreta espe­rienza del suo suono.


Tale operazione retrospettiva, se non proprio storiografica (che qui si vuole solo tentare secondo le linee di uno schema sommario e come complesso di tesi da verificare in un’altra occasione), è forse il mezzo più adeguato per affrontare la questione dell’arte d’avanguardia e i temi ad essa collegati. Ma cos’è esattamente Laborintus? Che senso può avere un’esperienza radicale di immersione del linguaggio nel caos dell’irrazionalismo in un’epoca che da decenni si lascia alle spalle le avanguardie letterarie del primo Novecento? Da dove nasce quest’azione poetica che Zanzotto definì «sincera trascrizione di un esaurimento nervoso»? Altrettanto nota è la risposta di Sanguineti che accetta sì il discorso dell’esaurimento nervoso però «non in me ma in re». Ad essere precisi, Sanguineti puntualizza in modo forte «che il cosiddetto ‘esaurimento nervoso’ che io tentavo di trascrivere sinceramente era poi un oggettivo ‘esaurimento’ storico» (E. Sanguineti, Poesia informale?, in I Novissimi. Poesia per gli anni ’60, a cura di A. Giuliani, Einaudi, 2003, p. 202).

Il poeta definisce la sua ricerca già a partire dal 1951, quando inizia a lavorare alla raccolta di sequenze poetiche pubblicata dall’editore varesino Magenta nella piccola collana “Oggetto e simbolo” diretta da Luciano Anceschi e poi antologizzata, con corredo di note dell’autore, nel volume collettivo Novissimi (1965). L’esigenza di sperimentare nasce nell’intento di produrre una poesia che possa dirsi effettivamente contemporanea alla nuova società capitalistica e trova fondamento su ragioni ideologiche maturate dal confronto con la realtà attuale che – come specifica Giuliani – è in primo luogo la realtà linguistica in cui siamo immersi. Il problema della lingua letteraria si risolve allora, per i Novissimi, nel «trattare la lingua comune con la stessa intensità che se fosse la lingua poetica della tradizione, e di portare quest’ultima a misurarsi con la vita contemporanea» (E. Sanguineti, Poesia informale cit., p. 22).


L’operazione metrica dei Novissimi presenta in questo senso un rapporto di omologia con l’abolizione della figura effettuata dall’Informale in pittura e l’infrazione del sistema tonale nella musica postweberiana, rispetto alle quali si fa esplicito il paragone nella definizione data da Giuliani del verso dei Novissimi e nel confronto tra la poesia di Sanguineti e l’Informale pittorico, di cui lo stesso Sanguineti discute in uno dei testi di accompagnamento alle poesie dell’antologia.

Era necessario attraversare di nuovo per intero il terreno già battuto dalle avanguardie, ripercorrere il loro cammino di evasione dal linguaggio, e portare alle estreme conseguenze la loro ribellione alle istituzioni linguistiche che si identificano con l’ideologia borghese. Sanguineti può dire di aver fatto «dell’avanguardia un’arte da museo», cioè di averla resa inattuale e quindi inusufruibile, dopo averla esaurientemente sperimentata. Era necessario ridare respiro umano e profondità lirica anche ai cascami dell’assolutamente quotidiano. Con la sua intelligenza ironica e amara, realizza insomma ciò che egli stesso attribuisce (nelle bellissime pagine della prefazione al libro di Kostelanetz) a John Cage: «riversare sopra il vissuto quotidiano, nell’azione sociale di ognuno, quanto l’arte addita in forma simbolica ma reale, fornendo modelli sperimentabili di nuove relazioni con gli uomini e con le cose».


Per chi decida di addentrarsi nella fucina creativa di questo poeta è utile sapere che l’avventura del leggere implica fatica. Essa è labor, in senso etimologico: non soltanto lavoro e travaglio, ma anche pericolo del vacillamento, della caduta nel caos, dello scivolamento che comporta un necessario cambio di prospettiva (per giungere alla cognizione della deriva dell’attuale universo capitalistico).

L’opera può così considerarsi una faustiana discesa all’inferno che ha tutto l’aspetto di supremo divertimento: la tecnica della confessione psicanalitica mima in verità un riconoscimento nella mitologia collettiva, dove l’alchimia e le larve dei sogni, le scoperte erotiche e filologiche, il decadimento sociale, le figure dell’esperienza quotidiana, s’inseguono per giustapposizioni verticali, in un finimondo linguistico-sintattico che dà subito l’idea della ‘serie’ dodecafonica trasposta nel linguaggio letterario.

Una strana mistura di eros, epos e thanatos in 27 sezioni in cui si racconta l’attraversamento di un paesaggio lunare, che è figura della terra postatomica, da parte di persone che s’incontrano, si cercano, si allontanano, provano ad amarsi e continuamente si trasformano: tutta la sua ars ruota attorno a organismi strofici mutili, ellittici, sghembi come I giocatori di carte di Paul Cézanne. Un’opera aperta, dove della cortina muraria rimane solo qualche tratto ma è ben visibile il bastione dal quale avvistare massacri enormi di parole, immense città in rovina di libri servili e qualche sparuta colonna ionica di autori méprisés (Lukàcs e Restif de la Bretonne, per citarne un paio).


I reperti però non rimangono stilemi morti o ‘sopravvivenze’, ma acquistano nuova linfa, rappresentando un punto caldo del testo, giacché lì si stratificano i diversi significati. Pur non trattandosi di poesia d’amore, il filone che comprende la tematica erotico-coniugale è delineato mediante un esercizio dei sensi che ha come vertice il piacere corporale, tanto che, durante il percorso, assistiamo a una sorta di metamorfosi di Ellie (personificazione dell’inconscio, del ‘femminile’, anima mundi), la quale non riesce a portare a compimento – fino alla sez. 21 – la coniunctio alchemica e fisico-corporale con Laszo (autore-protagonista-narratore). Ma, appunto, Ellie non perisce né si autodistrugge, bensì si trasforma: solo una parte di lei viene eliminata; un’altra, quella del desiderio e della forza passionale, viene ereditata da λ (‘Beatrice di carne’ che assolverà la funzione generatrice essenziale per guidare l’io poetico fuori dalla Palus).


     post mortem stabis senza tegumenti in materne acque mature

     mentre giardino Lacus Somniorum epiteliale propriamente epitelioma

     mia costale corteccia eventuale mia flora tumore domestico

     proporzionale e regno parco subacqueo aut lente ruolo di ruota deambulabis

     triste ruota e stridente e grinzoso chi partorirà in una bara

     e sibilante chi nascerà morto semplice

                                                                 e conclusa (detta ironia tecnica)

     durante dondolanti globi carnosi tubulati crudi cubi

     dolce mucosa

                     mentre consonante oltraggio delirio seriamente

     che costa caro ragione di cancrena prezzo chiuso ah chiuso

     affinché licantropia mio acume in crudele orto botanico


Una vicenda allegorica, nella quale un io attraversa una lunga fase di alienazione mentale, rappresentata da una sorta di palude infernale, colma di detriti storici, di frammenti di letterature perdute e di visioni da incubo. Un materiale frammentario, di cui l’io tenta la decifrazione e la ricomprensione in un ordine di possibile salvezza, dove frasi fatte, sintagmi originali, microcitazioni di reminiscenze di discorsi personali o citazioni di auctoritas vengono trattate allo stesso modo e quindi convivono sullo stesso piano in perfetto equilibrio, conferendo al testo una struttura orizzontale, poiché tutto si amalgama, e tra un ricordo, la bautade di una ragazza danese o Marx non c’è nessuna differenza.

Sanguineti, riprende soprattutto l’idea di allegoria – tipica della concezione benjaminiana – intesa quale connessione di elementi estrapolati dal loro contesto abituale e presa d’atto della frattura nella coscienza dell’uomo, nella società capitalistica, per cui tale figura retorica si configura come consapevolezza e rappresentazione della crisi, ma anche come reazione all’eliminazione dell’apparenza illusoria – emanata da ogni ordine dato – destinata a trasfigurarlo. In una società dominata dall’alienazione, l’allegoria non può funzionare in maniera dantesca e medievale, ma può agire per frammenti e si offre a una lettura polisensa.


Quando nel Laborintus si parla, con preciso rigore, di ‘alienazione’, si sommano l’ovvio significato clinico (che è appunto l’esaurimento, esasperato e provocantemente sottolineato) e quello diversamente tecnico di Verfremdung, che comprende sia il valore socialmente diagnosticato del concetto marxista, sia quello estetico (‘straniamento’) di marca brechtiana (mirabilmente ripreso, tra gli altri, da Adorno). In ciò, l’opera è da considerarsi una forma di intolleranza del presente e del male che in esso alberga. Un male non astratto, metafisico, bensì sociale. Laborintus non è una fuga nell’utopia e non è neppure un sogno del futuro. È una rappresentazione mitico-simbolica del mondo com’è e come, forse, potrebbe essere.


Il labirinto diventa così un modello astratto e privilegiato per interpretare la realtà effettuale e, di conseguenza, per rappresentare il mondo. Secondo Eco, addirittura, «quel labirinto è una struttura archetipica che riflette il nostro modo umano di adattarci alla forma del mondo, o di imporgliene una qualora esso non ne abbia – o sia disposto ad accettarle tutte».


La metrica liberissima, la molteplicità delle lingue (antiche e moderne), la struttura sintattica organizzata senza soggezione alle regole e alle convenzioni, l’aderenza realistica alla storia mediante la microstoria del ‘piccolo fatto vero (possibilmente / fresco di giornata)’, la poetica degli oggetti, il primato della politica, il primato dell’attività sessuale, l’ironia dissacrante, sono i principali mezzi di cui si giova la nuova comunicazione poetica.

Ciò che rende tutto straordinario è la fusione e l’identità di immagini che esse ricreano, mettendo in evidenza non tanto il piano semantico, quanto quello fonico-acustico.

Ad attirare Sanguineti è l’omofonia. In Suono del teatro (variante) il poeta precisa: «rispondo, per le rime, a me medesimo, così»: «il solo sole è il suono, che pontifica». Ecco, l’omofonia altro non è che la ripetizione di suoni uguali o simili, cioè il giocare con i suoni.


Sicuramente, il ricorso alla metrica latina (quantitativa e non accentuativa) permette di dare un’idea compiuta al susseguirsi di lunghe e brevi: il principio che guida tale sequenza, come gli effetti che essa inevitabilmente produce sugli ascoltatori, è quello di una sorta di Klangfarbenmelodie (ipotesi e teoria schönberghiana di melodia e timbri; su questo concetto vd. A. Schönbergh, Manuale di armonia, Il Saggiatore, 1997, pp. 527-529) dove l’esecuzione diventa decisiva per la funzione del tassello nella serie.


Se per chiarire l’operazione metrica – costruita su una sequenza di proporzioni definite di unità verbali – è più appropriato ed efficace il paragone musicale, per rendere bene l’idea del montaggio e l’assemblaggio di tessere (altro aspetto decisivo della costruzione e sua efficacia speculare) viene in soccorso il mondo artistico, pittorico e visivo. Sequenza metrica e montaggio di tessere costituiscono quindi dimensioni strettamente correlate: specificatamente, nell’universo pittorico il montaggio serve a fissare il metodo operativo, rimandando al ready-made, in cui il gioco dialettico è anche un esercizio ascetico, un via catartica. Diversamente dalle pratiche dei mistici, il suo fine non è l’unione con la divinità né la contemplazione della somma verità: è piuttosto un appuntamento con nessuno e il suo obiettivo è la non-contemplazione. Per questo, leggendo Laborintus, ho pensato a La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche di Duchamp, una macchina di simboli deformati dall’ironia, un tentativo di rivelazione o, come egli diceva, di «esposizione ultrarapida».

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Si resta affascinati  da quest’oggetto a quattro dimensioni e dalle ombre che proietta.

Sono le ombre che chiamiamo ‘realtà’, dove l’oggetto è un’Idea ma l’Idea si risolve, alla fine, in una presenza:


     ridurremo forse la testa umana a secco luogo geometrico ma

     comparata con l’ideale esigenza questa rivolta

     non avrà fine



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Immagine di copertina: Italo Lanfredini, Labirinto di Arianna, 1990


20/09/2022

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