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Terza voce

POESIA SEME DEL PIANTO

di Antonio Fiori

Sappiamo quanto sia facile (e pericoloso) scrivere attingendo ai sentimenti per suscitare commozione (anche al cinema e a teatro si dice sia più facile far piangere che far ridere) e quanto invece sia difficile elaborare il dolore nella scrittura, specie in quella poetica, rendendo il lettore profondamente partecipe senza l’innesco di meccanismi psicologici fini a sé stessi o prevedibili figure retoriche.


Due poeti capaci di commuoverci davvero, talora fino alle lacrime, e a me particolarmente cari, sono Giorgio Caproni (1912-1990) e Raffaello Baldini (1924-2005).


Le poesie dei Versi livornesi che Caproni dedica alla madre Anna Picchi nella raccolta Il seme del piangere (1959) e quelle da lui composte in memoria della fidanzata Olga Franzoni, persa prima delle nozze nel 1936 (Sonetti dell’anniversario, in Cronistoria, 1943), sono forse l’esempio più pregnante – almeno nel Novecento italiano – di poesia scritta nel pianto e potenzialmente sorgiva di pianto in chi legge. Caproni, in queste liriche, è il poeta-fidanzato: lo è biograficamente nei Sonetti per Olga, lo è metaforicamente nei Versi dedicati alla madre, e in entrambi i casi riesce a far detonare l’insospettabile potenza amorosa condensata nel termine ‘fidanzato’.

Leggiamo dunque il primo dei diciotto Sonetti dell'anniversario, dove il pathos viene potenziato dal continuum della tipica struttura caproniana a ‘monoblocco’, con l’abolizione degli spazi bianchi-pause fra quartine e terzine, e la parola-chiave è declinata al femminile:


     Poco più su d’adolescenza ahi mite

     fidanzata così completamente

     morta. Sulle compagini sfinite

     di tante pietre, una scienza demente

     riduce già la storia: le nutrite

     vampe delle cavalle alla mordente

     rena di gioventù – le nostre unite

     briglie, frenate nell’etere ardente

     della rincorsa e al sonno ora allentate

     sulle tue nocche per l’eterno. (O fu

     anche il tuo nome una paglia in estate

     strinata fra i papaveri – un di più

     appena opposto alle corse accecate

     per non sperdere a sangue ogni virtù?)


Caproni era ben consapevole del fatto che l’utilizzo del termine ‘fidanzato’ in relazione alla madre sarebbe stato facile oggetto di attenzioni psicoanalitiche, nondimeno – o forse proprio per questo – ha scelto di usarlo ugualmente nell’elaborazione poetica del proprio lutto (Anna Picchi muore a Palermo nel 1950, quando il figlio ha 38 anni). Tanto ne era consapevole che nei versi cruciali dell’Ultima preghiera preannuncia ciò ch’io e il mio rimorso / pur parlassimo piano / non le potremmo mai dire / senza vederla arrossire.

In realtà, in Caproni orfano adulto rivive il fidanzato colpito dalla perdita dell’amata e in Annina ragazza, ancora ignara della futura maternità, viene trasfigurata la stessa Olga, la fidanzata scomparsa. In questa notissima lirica, che si legge con commozione, il poeta chiede alla propria anima di andare in sua vece a Livorno, a ritroso nel tempo, alla ricerca della giovane madre, consigliandola in ogni modo su come superare ostacoli e tentazioni. Finalmente Annina viene riconosciuta e raggiunta, ed ecco allora svelato il mandato che affida alla sua anima:


     Anche se io, così vecchio,

     non potrò darti mano,

     tu mòrmorale all’orecchio

     (più lieve del mio sospiro,

     messole un braccio in giro

     alla vita) in un soffio

     ciò ch’io e il mio rimorso,

     pur parlassimo piano,

     non le potremmo mai dire

     senza vederla arrossire.


     Dille chi ti ha mandato:

     suo figlio, il suo fidanzato.

     D’altro non ti richiedo.

     Poi, va’ pure in congedo.


Dopo i versi di Caproni, desidero proporre quelli di Dany, un lungo testo di Raffaello Baldini nato in romagnolo e autotradotto dall’autore (ora nella Piccola antologia in lingua italiana, a cura di Ermanno Cavazzoni e Daniele Benati, Quodlibet, 2018).

Si tratta, come sempre in Baldini, di poesia narrativa, qui in particolare di una storia d’amore delicatissima (forse vissuta in prima persona, forse sentita raccontare) che si chiude con la morte prematura della giovane protagonista femminile, anch’essa come Olga perduta e presente per l’io lirico, e intorno a tale ferita si modulano la sua voce tormentata e il racconto della vicenda («un amico lettore legga Dany e mi dica se anche a lui, come a me, è venuto da piangere», Camillo Langone, 20 ottobre 2018, «Il Foglio»). Come Olga,


     sono passati i giorni, sono passate le settimane, io,

     non so neanch’io, non vedevo l’ora,

     mattina e sera, d’andare a lavorare,

     di stare con lei, di parlare,

     che mi davo del balordo, dài, che hai un figlio,

     di ventisei anni, lei quanti ne ha? ventiquattro,

     cosa vuoi? che poi io, in fondo, non volevo niente,

     non ci pensavo, o forse no, ci pensavo,

     ma come a una cosa che non può essere, invece,

     perché io non sono antipatico, ogni tanto

     qualche battuta, lei, anche lei mi faceva

     i suoi racconti, mi domandava delle cose,

     io e lei, in ufficio, sempre soli,

     e quella voce, anche la voce,

     che io sono un caciarone, lei parlava

     come in un sussurro

     [...]

     sua madre, c’incontravamo per strada,

     faceva finta di non vedermi, e in casa

     tutto il giorno un litigare, «Non ti vergogni?

     che è un uomo sposato? che è vecchio?»,

     ma vergognarsi di che? che eravamo bravi,

     carezze, baci, troppo bravi,

     abbracciati stretti, poi niente, fermarsi lì,

     che c’era da diventare matti,

     un giorno m’ha detto: «Forse

     non ti piaccio abbastanza?»,

     «Mi piaci troppo», «O è perché sono vergine?»,

     io avevo moglie e figli, ma come si fa

     a dirle certe cose? e c’era anche

     un altro perché, vado a messa io,

     ci credo, non sono un bigotto, ma ci credo davvero,

     e dentro di me era una guerra, dicevo:

     non si può andare avanti così

     [...]

     sua madre: «La Daniela la vuol vedere»,

     io ho fatto di sì con la testa e l’ho seguita,

     ha aperto, due rami di scale,

     tremavo, e l’ho vista,

     il cuscino bianco e tutti quei capelli neri,

     e quegli occhi, ha allungato le mani, io le ho prese,

     le ho tenute strette, sua madre è uscita,

     ho chiuso la porta, un bacio,

     e non dicevamo ancora niente, però lo sapevamo,

     questa è l’ultima volta che ci vediamo, 

     ma la notte è lunga, ci possiamo dire

     tante di quelle cose,

     che poi io non stavo quasi a sentire

     quello che mi diceva, mi volevo tenere in mente

     la sua voce, una voce, l’ho già detto,

     è lo stesso, lo ripeto, era una voce

     d’una dolcezza,

     e cinque giorni dopo è morta,

     al funerale non sono andato, anche per i miei,

     però vado al cimitero,

     le piacevano i garofani, gliene porto

     uno, rosso, lo metto lì, di traverso, per terra,

     e poi viene sua madre e lo butta via,

     io torno e ce ne metto un altro, ma non è

     che m’importa del garofano,

     io, è lei che non c’è più, che passa il tempo,

     che si allontana, quella bocca, quegli occhi, quelle mani,

     che è sempre più lontana,

     delle volte dico: Daniela,

     non nel pensiero, lo dico,

     sottovoce, quando sono solo,

     Daniela, Dany, mi è rimasto solo il suo nome,

     poi penso anche quando morirò io,

     e di noi due, che ci pareva d’essere il mondo,

     di tutto il bene che ci siamo voluti,

     che non potevamo stare un’ora senza vederci,

     non resterà niente


     e prego, prego, che sono le preghiere che si dicono,
     che dicono tutti, che si son sempre dette, invece
     a me m’è successa una cosa,
     e non c’è nelle preghiere quello che vorrei dire,
     quello, io, che m’è successo, da raccontarlo
     al Signore, dirglielo, io,
     che il Signore sa tutto, lo so, ma io,
     mi deve stare a sentire anche a me,
     perché, sì, avremo sbagliato,
     ma una condanna a morte,
     che il nostro, questo lo posso dire, non era vizio,
     era amore, perché lei era bella,
     essere bella, la bellezza non vuol dir niente?
     è una cosa cattiva? era cattiva,
     lei? non lo so, e cattivo anch’io?

     ma nessuno mi risponde,
     il Signore sta zitto, parlo solo io,
     e io gli vorrei anche dire un’altra cosa,
     che mi vergogno, sì, però la dico lo stesso,
     io sono stato un po’ vigliacco,
     non volevo far del male, ma ho fatto del bene?
     non ho fatto niente, sono stato meschino,
     ho sbagliato e sbaglio ancora,
     perché io adesso dovrei essere pentito,
     ma per me è stata una cosa, anche se ai miei
     gli voglio bene, non gli ho mai fatto mancare niente,
     anche alla Rossana, ma mi sono trovato,
     non c’è stato niente da fare,
     lo dico in senso buono,
     non c’è stata malizia,
     e adesso per me
     dovrebbe essere stata una brutta cosa, io
     dovrei cancellare tutto,
     non pensarci più, la Daniela dimenticarmela,
     è questo il pentimento, però non sono pronto,
     è ancora presto, non posso,
     posso domandare perdono, domando perdono,
     prego, ma come faccio
     a pentirmi, che sono ancora innamorato?



*

Immagine di copertina: Antonio Ambrogio Alciati, Il convegno, 1918



29/11/2022

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