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di Federico Migliorati

Nel tempo delle ipocrisie e della cultura usa-e-getta, i versi al vetriolo, corrosivi e taglienti di Simone Cattaneo appaiono lontani anni luce. Per dirla con Roberto Batisti, questo giovane saronnese scomparso nel 2009, a soli 35 anni, di cui rimangono circa un centinaio di poesie, era dotato di una lingua «secca e diretta, in cui le parole si presentano ormai alleggerite dalle risonanze acquisite in secoli di storia dell’italiano».

Arguto, incisivo, mai banale, scontroso, sferzante, nasce con la narrativa americana, successivamente esiliata poiché ‘ha detto tutto’: la sua breve esistenza è stata scandita dall’amore per la musica, specie anglosassone, e per una poesia onesta che fosse cioè orientata a coincidere con la propria esperienza di vita.


A dare avvio alla sua produzione fu quel Roberto Roversi (prim’ancora Giuliano Ladolfi) che in lui aveva intravisto un autore capace di superare steccati e di innalzarsi sulla pletora di insofferenti epigoni di questo o di quel maestro. Per Roversi il discorso poetico di Cattaneo è «aperto e nello stesso tempo contratto, cantato e suonato ma nello stesso tempo con un rimbombo interno da cantina svuotata; con momenti liberi e narrativi e una sorta di amarezza rapida e improvvisa, da nube grigia che oscura il sole»:


     rimango con il pomo d’Adamo imprigionato

     in uno schiaccianoci a dirti solo

     che è andato tutto come non avrei voluto...


Uomo arcigno e duro, ma anche estremamente fragile, per il quale «è la morte in faccia la molla per scrivere», Cattaneo ha marcato un territorio privo di orme. Dichiarava qualche anno prima della morte: «Un desiderio di rappresentare la realtà mai colmato e insieme un desiderio di verità. Entro questi due termini gioco la mia poesia in un continuo rimbalzare spinto da un motore sconosciuto, in uno spazio privo di giustificazione e intriso di mistero»:


     Non c’è bisogno di nessun sacrificio,

     la memoria del sangue qui non cicatrizza

     alcuna ferita.


Benché complessa e composita, la sua vita fu sempre indirizzata in funzione di quella realtà – Batisti parla di «ethos stradaiolo» – che non poteva né doveva essere scalfita o romanzata, ma esibita e messa alla berlina se serviva: «Cattaneo – scrive Nicola Scarpa – è crudele nel guardare in faccia la realtà, blasfemo nel mettere insieme tutte le dissonanze del vivere, non fa sconti nemmeno a sé stesso quando carica le parole come proiettili e le affonda nella carne viva».


«Ho scavato la mia carne / come fosse una vela»: ecco l’acuirsi di una sofferenza anche psicologica che a lungo andare lo avrebbe condotto a suicidarsi gettandosi dal settimo piano di una palazzina della sua città; ecco il richiamo a un elemento tipicamente marino, la vela, che è insieme miraggio e immensità, libertà e smarrimento:


     Ho imparato il termine infame

     e il valore del digiuno

     ho tramutato il sudore in fiore

     e il fumo in benzina,

     ho scavato la mia carne

     come fosse una vela

     e ho gettato sabbia sopra il pianto

     ho creduto nella pena, nel silenzio,

     nella domanda liscia della fame.



*

Fotografia © Eikoh Hosoe


01/02/2024

Sulla soglia

SIMONE CATTANEO:
“NELLA DOMANDA LISCIA
DELLA FAME”

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