top of page

Recensioni

DAVID MARIA TUROLDO,
“CANTI ULTIMI”
(GARZANTI, 1991)

di Davide Toffoli

Conoscere è tutto, e imparare a fare i conti con la morte si rivela l’ultima straordinaria lezione di vita, anche per l’uomo scandalosamente di fede che si imbatte nella drammatica esperienza del Cristo nel Getsemani. Da questo nasce la poesia ‘estrema’ di David Maria Turoldo, che, specie in Canti Ultimi, riesce a farsi diario personale, dialogo quasi sussurrato con Dio. Il verso tagliente e delicato, costantemente asservito al colloquio con il ‘Tu necessario’, rivela il dubbio dell’uomo che si scopre sospeso sul ciglio di due abissi: Dio e il Nulla (come già denunciato nella potentissima e più gridata silloge Il grande Male del 1987). Il ‘salmista’ Turoldo ci regala, in questa raccolta, una passione metaforica, un’accesa conversazione senza risposte col divino che si colloca nella corrente, anche letteraria, della grande mistica di tutti i secoli: dai Salmi al Qoelet della Bibbia, da Pascal a Giovanni della Croce, fino a giungere al Clemente Rebora dei Canti dell’infermità.


È nel gioco di rimandi tra il Tutto e il Nulla che padre David sviluppa la sua poesia, nell’immane tentativo di cantare l’incantabile, rispettoso del silenzio quale unica «strada verso il nudo / Essere», ma convinto della dignitosa sacralità di parole, segni e immagini, preziosi punti di raccordo tra le creature. Il libro si apre con i versi «La vita che mi hai ridato / ora te la rendo // nel canto», che suonano come una vera e propria dichiarazione di poetica. Infatti Turoldo si interroga sul senso del proprio cantare e riconosce in questo una vera e propria missione che si accompagna allo sforzo di dar voce al non ancora detto, o al già detto ma comunque da ridire. Parola come perla rara, quindi, fine ultimo di un canto che possa aggiungere ancora qualcosa all’interminabile discorso sull’uomo e su Dio. Ma anche parola come punto interrogativo, che apre un’indagine sulla fine per comprendere cosa ci sarà oltre.


     Questo mio poetare

     è ancora un gioco di farfalle

     in volo senza direzione

     e tutte cadono a terra

     con le ali bruciate.

Immagine.png

Al di là delle divergenze degli esiti, si tratta di una ricerca di Dio molto vicina al Caproni de Il franco cacciatore e de Il conte di Kevenhüller, con il cacciatore che si scopre preda e, col fucile spianato, si ostina a cercare: in Caproni, poi, prevarrà l’aspetto del non credente, sino a sparare ovunque senza riuscire a intravedere la sospirata preda; in Turoldo, invece, il ‘cacciatore’ la scorge ovunque, silenziosa, religiosamente celata negli ultimi, voce spesso inascoltata, verso la quale si sentirà mosso e dalla quale sarà guidato su strade ignote.

Quella di Turoldo è una ‘teomachia aperta’, ben lungi da qualsiasi definitiva geometria di certezze. È l’infinito mistero dell’uomo costretto a fare i conti con il limite e il suo opposto. La lotta può aver luogo dappertutto e lo stesso (voluto) naufragio nell’infinito mare sembra risolversi in una ricerca interiore, in cui l’uomo si scopre indifeso, ridimensionato nelle proprie mire da qualcosa che continua a trascenderlo:


     Altri, sì, altri

     scavalchino la siepe, altri


     godano il dolce naufragio

     nell’infinito mare


     a me questo solo

     bramire di cerva


     tra

     le pietraie.


Più avanti la malattia appare esplicitamente (Il Drago è certo) e assai profonda pare farsi la riflessione sulla morte, stimolata dalla necessità di vivere in prima persona l’esperienza di un disperato conto alla rovescia. Allora si fa evidente un’atmosfera di vigilia dove manca soltanto «il grande Atteso».

Inevitabile, a questo punto, è l’impatto con la figura di Cristo, che chiede perché dall’alto della croce, mentre Dio può soltanto soffrirgli accanto, così come soffre per ogni uomo; ma intervenire sarebbe un sottrarsi al ‘gioco’ che ha voluto le creature libere. Dunque la vera fede è quella del Venerdì Santo, quando Cristo è sulla croce, martoriato e sporco di sangue, e il Padre sembra lontano («E non una mano / gli schiodasti dal legno: // che si tergesse / dagli occhi il sangue / e gli fosse dato / di vedere / almeno la Madre // là / sola…»). Ecco che il suo sacrificio diventa l’atto d’amore con cui Dio stesso ristabilisce l’armonia perduta tra Sé e il creato.


Alla base di tutto, della creazione stessa, sono i due archetipi coscienziali, Ish e Ishâ: l’Io e il Tu dell’amore, liberi di amarsi o non amarsi, con il diluvio di conseguenze che la loro scelta determina sino a creare la storia. Dove viene meno quest’equilibrio, s’incrina il rapporto tra l’uomo e Dio. Ma in Turoldo il colloquio si protrae, tra sogni di armonia ritrovata, tempeste di luce e un desiderio appassionato tipico di ogni attesa amorosa. I toni sono quelli dell’idillio, pur con immancabili cadute e addirittura con il timore che l’Amato si riveli null’altro che «divina Indifferenza».

Tra inseguimenti e fughe, la poesia di Canti ultimi sembra preludere alla sospirata conoscenza di Dio e, soprattutto nella sezione conclusiva Exinanivit, all’unione finale dove la creatura arriva a ‘sciogliersi’ nel Creatore, accettando di lasciarsi pensare e manipolare in un modello d’amore sempre nuovo, mai completamente conosciuto o posseduto:


     E mentre io sempre più disperavo

     di afferrarti, sentivo

     che eri tu ad assorbirmi:


     fino ad essere insieme perduti.


Il punto d’arrivo è la fusione nell’Essere, il varcare definitivamente la soglia per entrare nel mistero della vita stessa («Viviamo il Sogno eterno / per cui ‘omnis creatura ingemiscit’: // la fusione dell’Essere: // prodigio estremo della Ruah / che ‘cova’ sulle scogliere delle origini»). Ma, proprio nell’attimo in cui si trova a superare la soglia, Turoldo si guarda attorno e, quasi in un’ansia di condivisione, si spinge a cercare un compagno di viaggio, armato delle sue diverse convinzioni, che gli offra non complicità ma compassione, una stretta di mano o un ancor più semplice ‘camminare insieme’ verso un qualcosa di necessario che insiste a sottrarsi al dominio dei sensi:


     Fratello ateo, nobilmente pensoso

     alla ricerca di un Dio che io non so darti,

     attraversiamo insieme il deserto.

     Di deserto in deserto andiamo

     oltre la foresta delle fedi

     liberi e nudi verso il nudo Essere


     e là dove la Parola muore

     abbia fine il nostro cammino.


Con il toccante abbraccio tra l’uomo di fede e il fratello ateo, e il prodigio estremo della creatura che raggiunge la comunione col «divino Nulla», si chiude il supremo dialogo senza risposte, la poesia franante e sussurrata dei Canti ultimi: un religioso atto di concepimento della Parola e del Silenzio.



*

Fotografia © Mimmo Jodice


08/12/2020

bottom of page