Recensioni
STEFANO MASSARI,
“MACCHINE DEL DILUVIO”
(MC, 2022)
di Davide Toffoli
Un’opera che si apre con una serie di versi ricavati dalla trascrizione di una seduta spiritica e che dunque la collocano nella ricerca di una sottilissima linea di connessione tra due mondi apparentemente distinti. La data è il 18 agosto 1979, a poco più di un anno da vicende storiche che avevano visto un improbabile ricorso al soprannaturale come risoluzione possibile del sequestro Moro, ma qui non c’entra nulla la storia del Paese; è l’esergo a indicarci il confine su cui si gioca la partita: «In tutta la bellezza c’è qualcosa di inumano / che non si può sapere: / nell’essenza e nel midollo di ogni radice».
Il dialogo costante è con la separazione, con la morte.
Ciò che ne scaturisce è soprattutto un dettato incisivo e potente – privo di segni d’interpunzione – che presenta però, proprio all’interno del verso, una doppia spaziatura in grado di fornirci la misura esatta di una pausa, di un più profondo silenzio precedente il necessario ritorno alla (e dalla) parola.
La prima sezione, I primi dodici morti (1969-1996), è una piccola Spoon River su cui gravano il peso della storia e circa trent’anni di vita «con le unghie masticate fino all’alba / e tutto il nervo del secolo addosso».
Sono capitoli – collegati e indipendenti al tempo stesso – che evidenziano, come suggerisce Gisella Blanco, «una decostruzione del verso che lavora per suggestioni, mantenendo un ritmo decisamente serrato». Il doppio spazio, per intenderci, è come un accumulo di energia, la quiete apparente prima dello sfacelo; un taglio, un’esplosione, una ferita che strappa le parole e le trasforma in vita: «il suo unico figlio rimasto chiuso / in quel taglio e nient’altro»; oppure «addestrati a sparire già pronti per l’ombra / e per ogni prossima misericordiosa / bomba». Nulla sembrerebbe resistere «al buon dio dei massacri». Siamo davanti a un salmodiare laico che sceglie la dimensione onirica e, a tratti, sfiora addirittura la bestemmia.
La seconda sezione, figure del diluvio, rimarca la condizione umana e si apre con due citazioni da Yves Bonnefoy e Franco Fortini, entrambe centratissime sulla ‘parola’. Quella di Massari sa creare suono e tratteggiare immagini: «la bambina con la morte con l’acciaio / della buona sorte conficcato nello sterno / con una mano verso l’inverno e lo sguardo / calmo dell’altro lato di ogni nostra colpa / di ogni nostro corpo nato e perduto / senza ritorno».
La terza sezione eponima, macchine del diluvio, ospita dodici testi brevi: nomina vari metalli come contraltare del corpo umano (rame, acciai, ferro) e si assiste a un esercizio quasi alchemico, la ricerca di un’armonia tra animali, liquidi e corpi. Manifesta è l’idea di un’esistenza che è quotidiana resurrezione, un ri-partire sempre dal dolore, dallo squarcio: «mater bianchissima e sola sul confine / nei cortili dove restiamo muti lontani / gli uni dagli altri tra le pianure di queste case».
La quarta sezione, diario nostro, si configura come un incontro «nella luce» dedicato alla moglie Carlotta Cicci. Esordisce con un ‘corale’ dedicato alla città di Roma, che ha dato i natali a entrambi: qui l’amore è forza fisica aggregante e motore primo della vita; appare dia-bolico ogni tentativo di separazione: «chiunque tu sia perduto dio incompiuta bestia / divisa in due straziata abbandonata sul buio / della strada in festa prendi questa città gloriosa / prendila intera».
Un libro ben costruito che racconta il sopravvivere alle apocalissi personali, la trasformazione delle cose attraverso una parola scolpita (vengono in mente le opere dell’artista sardo Pinuccio Sciola), personalissima e ancestrale, sonante e luminosa.
(NAVONA)
guarda l’inizio di pioggia che spalanca
la piazza di gioia onora il padre e la madre
scrivevano sui mercati di carbone e bambole
qui tra i fiumi i millenni e gli assediati
mi chiedi di consegnarti tutti i miei nomi
le parti di dolore ancora intatte le difese
e le cadute le menzogne date e ricevute
gli ordini di febbre e di stupore mi chiedi
di restituirti la mia vita che precipita ora
e ti crede ti crede interamente
XII
la dodicesima morte preparava l’aborto
con la stessa sostanza del padre il polso destro
addestrato al rifiuto la mano sinistra sottile
e sfinita conficcata in fondo ai miei denti nuda
come il grano che raccoglieva ogni sera il dolore
di due giovani corpi che non sapevamo accudire
che non capivamo neanche il confine tra fede
e ferita perdono e addio gioia e sentenza
poi l’inizio del gelo la resa al buio come sua madre
la paura di obbedire nel petto a ogni minimo vuoto
di male e incesto la volontà di scendere in un unico buco
di sonno perfetto finalmente la fine all’inizio di tutto
***
la testimone ha un buco sulla fronte
labbra enormi che sussurrano tutte le nenie
del mondo la metà destra del suo viso
ci accusa tutti l’altra giura che ogni cosa
verrà generata ancora
*
Fotografia © Richard Kalvar
07/02/2023