Recensioni
LUIGI BALOCCHI,
“BARLICCH BARLÒCCH”
(MANNI, 2024)
di Serena Mansueto
Il tratto viscerale e la carnalità palpabile dell’ultima raccolta di Luigi Balocchi, Barlicch barlòcch (Manni, 2024), conferiscono alla poesia un’intensità graffiante, capace di aprire uno squarcio verso una profondità erotica in cui l’unione sessuale e l’incontro amoroso si intrecciano in modo indissolubile.
L’autore – alla sua seconda pubblicazione in lombardo – sceglie il linguaggio dialettale che tanto fu caro a Pasolini e Zanzotto. Proprio quest’ultimo scrisse, con acume, che «il dialetto è sentito come veniente di là dove non è scrittura né ‘grammatica’: manifestazione di un logos che resta sempre erchómenos, in sopravvenienza, che rimane quasi infante, che non impera gerarchizzando e dividendo, ma pone raccordi (sia pure mal definiti, persi talvolta in andirivieni e quiproquo di origine individualistica), raccordi pur sempre inventivi».
Il lessico diretto rende la poesia di Balocchi originale e intrigante. Come osserva il prefatore Fabio Pusterla, è evidente che «l’erotismo, la sessualità, i concretissimi organi sessuali», se espressi in italiano, «scivolerebbero inevitabilmente verso la più trita rozzezza», mentre in dialetto acquistano una ricchezza e una varietà straordinarie, sia a livello lessicale che esperienziale.
Fa da sfondo un parallelismo costante tra l’appetito e la fame di carnalità, con i topoi alimentari – «fragola, brioche, pane, cotoletta, cassoeula, polenta, confetti e biscotti, burro e miele» – che ricorrono come metafore della voracità sessuale e dell’intima pulsione: «Bella stretta, bell’amore, / ti ho allora appesa. Tutta, t’ho mangiata».
In questo intreccio di temi, dove inevitabilmente la tensione tra sacro e profano si fa tangibile («di questa macchia di fragole che in grembo / ti è cresciuta, occorre farci un’ostia santa»), l’elemento del luogo emerge come un ulteriore nodo cruciale. Le sponde del Ticino, con la loro doppia valenza simbolica e geografica, radicano la poesia in un contesto fisico e culturale ben definito, richiamando allo stesso tempo la memoria del precedente Coeur scorbatt, libro vincitore del Premio Tirinnanzi per la poesia dialettale nel 2022.
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AL SACRIFISI
Quan’ gha sarà puu la tua d’ona brugna per smorsà
al velen che gh’hoo den’, rivarà al dì del mè sacrifisi.
A tòcch ma faruu. Al becch che, cont i bas, ta m’hee
per ben stoppaa, mì ’l lassi su la riva de Tesinn; al coo
taccaa su al disaster d’on suu, che l’é destin ch’el moeura.
La lengua, lunga sta lenguascia che, depertutt,
la rusaa den’, gha la doo al vent: quel vent ch’el canta
l’inverna quand, vun ficcaa den’ l’alter, a vischevom
al foeugh; sti oeucc chì, i oeugg che ta diseva del bell
assassin, come specc traj den’ in del bascì di sciatt.
I sciamp, quej per rampatt, quej sì, anmu faruu sgorà.
Il sacrificio. Quando non ci sarà più la tua di una figa, per spegnere / il veleno che ho dentro, giungerà il giorno del mio sacrificio. / A pezzi mi farò. Il becco che, con i tuoi baci, mi hai / per ben tappato, lo lascerò sulla riva del Ticino; la testa / appesa al disastro di un sole, che il destino, sempre, mena al tramonto. / La lingua, lunga la linguaccia che, in ogni dove, / si è spinta, la darò al vento: quel vento che canta / l’inverno in cui, l’un nell’altro ficcati, appiccavamo / il fuoco; questi occhi, gli occhi che dicevi del bell’ / assassino, come specchi gettati nello stagno dei rospi. / Le zampe, per afferrarti, quelle sì, farò ancor volare.
AL RISÒTT E ’L BUS
De driss o de stòrt, denanz o dedree,
ciapel tì come ta voeur, tutt l’amour
al gh’ha minga on prim, al gh’ha no ’n second.
Ta gh’hee present al risòtt giald con l’òss
bus? Disnaa complet! Derva dunca i bej
làver. Slarga i busecch. Cascel giù tutt.
Il risotto e il buco. Dritto o storto, davanti o di dietro, / prendilo come vuoi, l’amore / non ha un primo, non un secondo. / Hai presente il risotto giallo con l’osso / buco? Pranzo completo! Apri dunque le belle / labbra. Allarga le budella. Caccialo giù tutto.
STRECCIOEU
A strus per i streccioeu, ch’hin
bagnaa da la broeuda d’ona brugna
che la berbella. Mì ta spetti in doe
la luna la ta rusa in di busecch
al su sgrisor, al ciòd al picca
den’. Stessa ròba la luna, al ciòd.
Vicolo. A zonzo per i vicoli, che sono / bagnati dalla broda di una figa / che tremola di piacere. Io ti aspetto dove / la luna ti ficca nelle budella / il suo brivido, ti penetra il chiodo. / Stessa cosa, la luna, il chiodo.
AL FIUR
Quella porta l’hoo dervii
puu. De là la fòssa, i terr
succ. Lì, a fevom l’amour;
lì, al fiur pussee bell.
In quella stanza, tencia,
voeuja. Domà per num.
Il fiore. Non ho più aperto quella porta. / Oltre, il baratro, le sterili terre. / Lì, facevamo l’amore; / lì, il fiore più bello. In quella stanza, nera, / vuota. Solo per noi.
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Fotografia © Alain Laboile