Recensioni
CAROL GUARASCIO,
“ANGELI SUPERPOP”
(TERRA D’ULIVI, 2020)
di Davide Toffoli
Un libro che non scivola via facile. Un percorso tortuoso, ricco di curve e ripiegamenti, costruito coerentemente nel segno assoluto della parola. Una parola dall’impronta specifica, suggestiva e sonante, visiva e invadente. Si apre, dall’esergo, evocando gli angeli, citando Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders («Voleva che il ruscello fosse un fiume, / il fiume un torrente / e questa pozza il mare») e lo stato di grazia dell’infanzia, dove tutto ha un’anima e le anime sono un tutt’uno. Forse sono bambini, questi angeli superpop, o forse «biondi ma non proprio angeli / asessuati, erano biondi pop, diafani / e pop. Parecchio pop».
Nella prima sezione, Del tempo di noi, spiccano alcune parole, graficamente messe in risalto dall’uso delle maiuscole seppur ben inserite nel contesto dei versi. Per procedere serve lentezza. Bisogna leggere i testi curiosamente, uno per uno; ci si ritrova così nel cuore di un personale opificio. «La mia casa è glaucoma del mondo», scrive la Guarascio, e l’impronta difatti sembra quella di uno sguardo affetto da un qualche danno ottico, da una visione alterata o falsata.
Per la metamorfosi il tu è determinante, ma qui ogni vocabolo suggerisce spesso spazi onirici («Ero un clochard in ritardo / un cane che bagna il finestrino / parola-bolla lucciola madre / mani sudate al trapezio / unghie impastate di cielo») ed è focalizzato su un altrove affascinante. «È il DUBBIO nello spazio a essere piccolo / ma la certezza è vasta», mentre gli occhi – occhi-finestra, che si gettano sul fuori e raccontano il dentro – sono chiamati a fare i conti con i propri impedimenti («Ma annullo lo stupore della trave, / spazzo con la pagliuzza del silenzio / la nullità dell’essere-parola»).
L’invito costante è a continuare, nonostante le difficoltà. Lavorare al mosaico, tessera dopo tessera, immagine dentro immagine, respiro dentro respiro. «La luce c’insegna a scavare / l’ombra alle cose», deforma «lo sguardo con lente d’amore», indica strade, dice come guardare il mondo. Melodia o yodel tra i monti, la vita risuona e difatti «Leggerò prima o poi / sulla fronte un pentagramma / di rughe». Le parole si fanno voragine di universi intimi, ma anche soltanto superfici, «BUCCE di mela» sul non detto. Familiari e ricercate, nella poesia della Guarascio lavorano parallelamente alla discontinuità e al disegno d’insieme.
Io e tu si legano, confondendosi e fuggendosi, implodendo e deflagrando, in equilibrio tra infinita prospettiva e finitudine del verso enfatizzata dalle chiuse e dal riferimento esplicito all’aprosdòketon. Ogni termine, ogni incontro, ogni angelo è una possibile scappatoia, un «PANIFICARE» idee, un accumulare granelli in «clessidre di sabbia-orco» se non ci si riappropria del valore fonico degli ‘istanti’. Oltre il suono si stringono rapporti insoliti («guancia-fico d’indio»; «bocca-digrignata»; «organo-faccia da clown»), rovesciamenti del punto di vista (come in Levis vs. gravis), elenchi avvolgenti (come in s.t.).
Nella seconda sezione, Del tempo del mondo, sono protagonisti i vivi, «quelli che guardano / ai grammi dell’aria come bambini», «quelli che stanno leggendo». Il sangue che scorre nelle arterie sembra essere il collante di tutto, sia quando i versi ci raccontano del primo mammifero estinto a causa del cambiamento climatico, sia quando (enigmaticamente) rappresentano mamme e bambini appena nati. Ciascuna successione reclama – al di là dell’immediatezza – un impegno e uno scavo, una ricerca, anche laddove sembrerebbe aspirare a un approccio di vita più familiare. Il chakra privilegiato è il settimo, il Sahasrara, che ci mette in collegamento con l’unità totale. Ecco il senso profondo delle connessioni diffuse nell’ambizioso lavoro della Guarascio, le quali aprono al soprannaturale, all’invisibile, al persistere delle energie.
Come in un mantra, è il potere del suono a delineare il reale, perché «il suono è vivo, è melma ardente / se alla parola vibra il mondo / cambierà qualcosa dovunque». Dall’universo di letture nascono prospettive di indagine: «Senza la carità di sé / la poesia è prima di ogni altra cosa / è formula dell’indicibile / è sillaba primaria che nel mondo sussurra / – Stridio di pianeti – / vanando nel tempo».
Si avverte la predisposizione al gioco linguistico della Neoavanguardia e di Pagliarani. Le parole e il maturo giocare con esse possono trasformarsi in un brindisi delicato e suggestivo come nella sagace Prosit, costellata di aggettivi tecnici da sommelier. Interessante pure il discorso che torna a riflettere su leggerezza e gravità della vita, in un’altalena costante. L’anima e la poesia hanno bisogno di essere rastremate, mentre «s’impiglia a un ramo il fiato dell’angelo». La poesia s’insinua come ectoplasma desideroso di riaggregarsi in cerca di una lingua da tradurre in suono. Emblematica l’essenziale ‘92/’96 Angiolette soffici: «Amelia va sul balconcino / Claudia la imita / (come Rita nel dopo senza Paolo)». Amelia Rosselli e Claudia Ruggeri, poetesse suicidatesi nel ’96, sono i primi due angeli evocati; poi Rita Atria, collaboratrice di giustizia morta suicida a soli diciassette anni dopo aver appreso della morte di Borsellino nella strage di Via D’Amelio: «Tutte tentano il volo dell’angelo / e superano la prova»
La sezione conclusiva, La sedia, contiene sei componimenti che presentano versi di 50 (49, 48, 47, 46, 45) battute, spazi inclusi. È animata da una giocosità delle forme che rimanda alle esperienze dell’OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle), dove ogni testo è aperto dai versi «Io sono qui su una sedia e...» e si propone come ‘quadretto’ spiazzante e tutt’altro che rassicurante, in cui la parola attira l’attenzione, lavora sul senso, sul suono, sull’immagine, chiama, rammenta, riesuma, nasconde radici («marcirai a Terezin, vi ricorda qualcosa / Terezin? Eh, voi che ascoltate, e ne sapete più / di me? Io voglio solo bruciare in croce in nome / del mio popolo, senza pensare alle conseguenze»). Sono testi che fagocitano in una memoria profonda e confusa. Il dettato poetico è vario e propone soluzioni sperimentali sempre nel sottile segno-sogno di un non-luogo dove approdano gli angeli a svelare «che il Signore ha scelto la nostra / Terra come dimora perché solo qui la parola è / scritta e può essere sparsa in tutto il mondo / e infine conservata in ogni posterità futura».
METAMORFOSI
Ero un clochard in ritardo
un cane che bagna il finestrino
parola-bolla lucciola madre
mani sudate al trapezio
unghie impastate di cielo
Ero cerchio di voglia
luce nell’ombra del mondo
confusione di CARNE
placca di nebbia
Ero guglia di monte scaleno
E poi
Tu.
REPORT 3 (COMFORT ZONE)
L’angelo di Marte s’è accostato alla mia spalla
sinistra, carezzandomi, muto,
con idee emanate dalla testa d’oro:
vengo a riprendere la pillola di zucchero
perché non sei stata brava a sufficienza.
Io dispero per la perdita di comfort.
L’organo clown mi fa marameo
e ricomincia a farla da PADRONE.
IL CAMBIO DI NOI
Ti piace guardarmi riflessa
negli specchi che accorrono
mentre ravvio una ciocchetta
al passo dei tempi che corrono
una lama d’ombra taglia l’aria
tra di noi è solo un’autostrada
c’è già forse stato il giorno del DESTINO
che cambia la vita, ma il nostro
è di quelli che si benedicono.
*
Fotografia © Ulderica Da Pozzo
27/04/2021