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Recensioni

FLORINDA FUSCO,
“IL COMPLEANNO E ALTRE OPERE”
(ARGOLIBRI, 2022)

di Davide Toffoli

Questa preziosa raccolta di Florinda Fusco si compone di una silloge inedita, Il compleanno, seguita da tre opere già pubblicate in un unico volume: La signora con l’ermellino, Il libro delle madonne scure e Linee, impaginate dalla più recente alla più antica. L’ordine cronologico rigorosamente invertito è, probabilmente, indizio di un accurato lavoro di indagine e di scavo, di un viaggio il cui esito coincide con un ritorno all’origine.

Florinda Fusco (Bari, 1972) è artista importante, che opera nel solco della Neoavanguardia e dello Sperimentalismo, definita dal critico Giuseppe Alfano «una delle voci più innovative e radicali della poesia italiana del nuovo millennio».


Il libro si apre con un esergo che è anche chiave di lettura per l’intero lavoro: «Io so bene che alla mia collana manca quel grano che voi chiamate padre». Segue un autoritratto in prosa, che principia con la minuscola e si conclude senza alcun segno d’interpunzione.

Il compleanno ospita poesie dal verso brevissimo, franante, verticale, una sorta di rosario da sgranare parola dopo parola. L’incedere, frenetico, è quello di un battito cardiaco irregolare. C’è ansia, desiderio di fuga; la dimensione sociale si sovrappone a quella privata, destinata inevitabilmente a soccombere («Il mio / compleanno / è / la festa / del patrono / senza / fuochi / d’artificio / né / zuccheri / filati»).

Nel sogno – non più luogo di rifugio – il letto di casa si trasforma presto in quello di un ospedale e le infermiere si sostituiscono alle figure familiari. Pure, tutto ciò è quasi come venire al mondo («Mi pettinano. / Mi lavano. / Mi stendono / sulle lenzuola»). Le figure attingono all’incubo, un corpo troppo grande e fuori forma impedisce anche i gesti più semplici, la materia uccide la parte più spirituale dell’uomo: «Quando / l’anima / si sveglierà / dal suo / incubo / – la vita terrena – / chi / la vedrà / svegliarsi? / e cosa / le dirà? / Hai dormito / bene?».

Ritorna spesso l’immagine di una mensa imbandita, irreale e simbolica: ci riporta alla mente la seconda prova del film Il labirinto del Fauno di Guillermo del Toro, dove è mortifero toccare anche una sola pietanza. Persino la terra promessa, nei versi di Fusco, non è che un semplice vassoio. Il rifiuto del corpo è una costante del Compleanno (nonché dell’intera opera fuschiana): «ho lasciato / il mio corpo. / Ora cammino / nell’aria».


Con La signora con l’ermellino (2007) si torna nell’ambito – perdonate l’ossimoro – più ‘tradizionale’ dell’avanguardia: sulla scia di Nanni Balestrini, la poesia esplode e finisce per occupare tutta la pagina. Il dettato poetico, questa volta, si sviluppa in orizzontale. Entro un’ambientazione tutta domestica ricorrono ancora la mensa imbandita e il tavolino apparecchiato per il tè. Un’atmosfera sospesa asseconda il flusso onirico-vitalistico. Come suggerisce Andrea Conti, ci si muove sempre tra sogno e visione («le mie briciole sono le parole dei morti perse al suolo»).

I morti arrivano ad essere più vivi dei vivi, in una dimensione che si potrebbe definire mistica, in cui è possibile vedere scorrere un rivolo di sangue sulla fronte. Aleggia come un presagio di reclusione; sembra quasi di visitare un ospedale psichiatrico se non addirittura un lager («aste trasparenti perpendicolari allo spazio / crani rasati / un uomo prova a camminare / un altro porta invano il cibo alla bocca / un altro prova inutilmente il sonno»).

Il corpo è di frequente imperfetto e da lavare: si avvertono morte e caduta, nel paradosso di una composta sacralità caotica. Ogni luogo pare dominato dall’inazione: stanze da letto dove non si dorme, salotti dove non ci si incontra, sale da pranzo dove non si mangia. C’è molto sangue («laverò / a ginocchioni i pavimenti / luccicheranno come stelle / le stelle sanguineranno / sotto i vostri tacchi appuntiti»), la guerra impone il suo tributo di bombe, esplosioni e patiboli: «Nella stanza secolare / non ho orologio / per misurare il passo dei fantasmi / c’è solo uno specchio / per iniziare a raccontarsi».

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Il libro delle madonne scure (2003) apre un ulteriore squarcio sulla fisicità del corpo. Nicole, Madame, Marie, Katerine, Elise, forse prostitute nigeriane della periferia milanese, si susseguono tra le pagine. Appaiono. A volte tornano. Particolare attenzione è dedicata all’abbigliamento e al vestiario. Le parole tracimano nel plurilinguismo. Al cospetto di un dio fratturato e troppo umano, ogni singola parte del corpo si fa abnorme, occupando il verso, lo spazio e il tempo. Si affaccia, evocata, una Madre. Il corpo si configura come espressione più vera del divino: arriva laddove la parola non riesce. Solo mediante il corpo l’anima può raggiungere Dio, come del resto accade nella mistica femminile medievale (Chiara da Montefalco, Ildegarda di Bingen, Caterina da Siena) o in Maria Maddalena.


Linee (2001) è l’approdo e al contempo il definitivo ritorno all’origine: la verità dell’anima è raggiunta, qui, anche attraverso alcuni inediti: «Una donna a piedi nudi disse: – Sono la mia essenza». Il corpo diventa altare e l’altare mensa («Io non so se il mio corpo sarà di nuovo il tuo altare / o se il tuo altare sarà ancora il tuo cibo»), mentre continua a vibrare un senso di morte: «i pavimenti dei lager adesso sono sale da tè».

L’acqua abbonda in questa silloge (è come rientrare nel liquido primordiale). Costante la presenza (intima, rassicurante) di animali da fattoria, ma l’opera è già sventrata, fatta a pezzi, tragica eppure priva di un reale svolgimento. L’inconscio pare cercare una propria rivalsa nei confronti del principio di realtà.

Giunti all’origine, si comprende come la poesia di Florinda Fusco coincida con l’inizio di un gioco, di un’avventura, di un labirinto. La sfida è decisamente quella di non arrendersi, di resistere oltrepassando le regole conosciute e condivise, con il coraggio di forgiarne nuove attraverso l’uso preciso, personalissimo del linguaggio.



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Immagine di copertina: Marina Abramović, Balkan Erotic Epic, 2005


04/12/2022

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