Recensioni
MARIO FRESA,
“BESTIA DIVINA”
(LA SCUOLA DI PITAGORA, 2020)
di Davide Toffoli
Il libro si apre con una presentazione di Andrea Corona, preziosa per comprendere da subito la sfida impegnativa offerta al lettore in questo lavoro composto da un linguaggio onirico fatto di continue condensazioni di immagini e di ripetuti spostamenti, in un dissidio costante tra frase articolata e frase-affetto. «I versi di Fresa osano l’aporia, osano avventurarsi oltre la catene della sintassi per approdare a quel che la psicanalisi freudiana chiamava l’ombelico del sogno, nodo inaccessibile dell’analisi». Il suo piano di comunicazione è costantemente da decodificare, in un gioco infinito che si interroga sulla sorte segreta delle parole secondo il dettato di Blanchot: nominare il possibile, rispondere all’impossibile.
Del resto, il dubbio è presente già nel doppio esergo: «Vi sono de’ giorni ch’io non posso fidarmi di me» (Jacopo Ortis) e «Non so più cosa sono, cosa faccio» (Cherubino).
Poesie enigmatiche, evocative («Siamo lo sguardo e il pescecane. // Questa morte mi è costata sette chili»), versi che sono specchi, visioni e visite inattese («Poi sorridono di gusto, sottomosca, / mentre la guardo a tratti più veleno che incidente»)... In molti ne hanno scritto e, tra questi, Elena Ramella, che lo definisce «un lungo, scuro, profondo sogno», oppure Monia Gaita, secondo cui quella di Fresa è poesia che «ci educa a guardarci attorno, ci addestra a traslocare consapevolmente negli eventi. E soprattutto ci lascia sostare nel linguaggio, nelle fessure di certi attimi rivelatori» («Ritorna, infine, Kurt che si fa bello / dentro il sudario treno: / la testa fa poca luce e il giudice lo dice in breve / a nome mio, come un’oscura resa / che sta al suo fianco // e ride»).
La Bestia divina dentro la bestia umana, che in Zola inesorabilmente schiacciava i protagonisti caduti... Poesia, quindi, come porta d’ingresso verso uno spazio ulteriore (Francesco Terracciano), filo sospeso che ci costringe all’indagine, anche laddove i tempi verbali seguono una logica da sogno e non le regole della consecutio temporum («Il ministro ha un nuovo morbo e Antonio / lo curò come un osceno guscio vuoto»).
La potenza intrinseca del verso è evidente e sempre in agguato («Quando sviene al millesimo, gli pare quasi / di non aver paura. Dice: pestare notte, / mettere l’ombra a posto; sono mantelli e / piccole sventure»; oppure «Il fazzoletto è aperto e inferno. / Giura che sarà questa la verità»). Fresa lavora di continuo sul linguaggio, sugli scarti semantici delle parole, sulle aggettivazioni composte da sostantivi («giornale notte», «monito serpente», «sedia ossigeno», «fretta somiglianza», «sonno macellaio»). Si incontrano domande taglienti che richiederebbero di tornare alle origini naturali delle parole: «Ma quanto terrore sta / nel tuo infinito corpo-trasloco?». È un poetare che evoca e che tende all’indecifrabilità. Dopotutto, come evidenziava Paul Valéry, chi sente le cose intensamente e si sente in intima unione con esse diventa inevitabilmente oscuro.
Ogni passo e scelta risultano sempre lontani dal consueto e dal familiare («Lo vedo infatti allo specchio più disastro / di prima; mentre, con le sue mosse strane, / si taglia fuori da tutto l’alfabeto // con l’aiuto di uno sparo»). Vengono a crollare i punti di riferimento, ma resta fondamentale una domanda: «Siamo più umani senza una lingua?». La parola di Fresa è groviglio di immagini e mistero, «Curiosa storia di mani che non vedo». Un linguaggio sempre sulla soglia in giornate vocabolario, dove si incontrano «gambe magnolia che hanno corta memoria / proprio di te, forno dolore; e chi dorme non è distante». Sembra di assistere a una cosciente diserzione, a un puro crollare del senso.
Si è così chiamati ad entrare... dal momento che «Appena entrati nella testa delle parole / siamo mercurio, intimità». È importante addomesticare lo strappo e il disagio. Perché – come ha evidenziato Fabrizio Bregoli – Fresa disarciona il pensiero e va oltre la capacità fenomenica della realtà. Il suo è uno sperimentalismo che a tratti rischia di soffocare («Mi addormento, quasi sempre, mentre pesto / il respiro fiammante su tutto il corpo nube: / ci amiamo da soli la terra grassa e la marcia ruberia. / Sta nella staffa di una barca tutto insieme, / da colabrodo padrone: fuori da te, dal mondo»). Tutto pare equivoco o ribaltamento, anche nella più distesa La Quinta del Sordo, che si struttura nel corpo del testo, ma resta immutata nella sostanza. Anche qui, in una linea più narrativa, «il tempo fa balbuzie» e si torna a rovistare fra le macerie, in «certi odori di telefono», oltre ogni grammatica noiosa.
L’uomo, il poeta, è Bestia divina capace di tratteggiare paesaggi al contempo familiari e spiazzanti («Abbiamo appena traslocato / nel piano di sotto temporale. / Anche il vicino blatta mi sorride. / E, in compenso, è falsamente / libero, feroce»), la cui parola ha sempre la ruvida spietatezza di un lanciatore di coltelli (Francesco Iannone). «Quando si sta a contatto con i vivi, si è sempre davanti alla fine di qualcosa». Ci si imbatte in personaggi mai del tutto reali, quasi spettri, che popolano i testi «in una mossa oscurità» di spazi e situazioni.
Un libro misterioso sul quale aleggia, costante, una percezione inesorabile di morte e di vita che, sebbene consapevole, non accetta di rassegnarsi. Un libro che frana, riedifica e poi torna a franare. «Diventiamo una balbuzie mondiale». Su questa soglia, senza dubbio, si sviluppa il canto.
SPARIRÀ
Dice che usciamo insieme, carnivori e infelici:
così ci scontano gli anni a metà.
Siamo lo sguardo e il pescecane.
«Questa morte mi è costata sette chili.
Per respirare, dunque, lo consolo; la lascia un po’ di giorni
dietro di noi, e clic.
Poi, di sicuro, sparirà.
DISERTORE
Noi stiamo con un ultimo ferito che sta intero
e che gli viene addosso: vero soldato
pronto a morire per una lingua che non passa
più mercato; e se ritorna, c’è una pesante corte
delle imprese che a suo modo
cerca di vivere, lo guarda a lungo
e poi gli chiede: che guerra è questa, se in effetti
proviene dalle gambe che diventano,
come per sbaglio, niente?
Che fa questo regalo da testa lavatrice?
Soldato che diventa puro crollare,
colla di ballerina; una sonora mente
di balbuzie!
NELLA CASA
L’amica del vento magro si chiama
con due nomi di silenzio; un po’ fune
(domani le avrei detto: giusto un po’ meno)
e, per esempio, il colmo del destino.
Ed è per questo che lei delira di anarchia.
La fissa dolce con gli ultimi, sottili rotoli
notturni sopra di sé; e sta bene sulle ossa
che si credono, quasi, un miracolo
di carne. Appena entrati nella testa delle parole
siamo mercurio, intimità.
PAROLE DELLA MORTE A SUA MADRE
Vivendo, ci si rovescia per terra. Angiola
sta legata per terra – ha detto; è pronta almeno
quanto una testa impazzita a causa
dei ricordi. Di nuovo, poi, l’azzurro esortativo.
Diventiamo una balbuzie mondiale.
Che fare allora, di questi verbi? Il nome c’è,
così allarmato da venirgli addosso. Ma credo proprio
che sia di un altro.
Uno straccio, le ripeto,
dipinto per sventura. Il salto dal balcone.
*
Fotografia © Arthur Tress
19/07/2021