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Recensioni

ROBERTA DAPUNT,
“IL VERBO DI FRONTE”

di Davide Toffoli

A proposito della nuova raccolta di Roberta Dapunt, Giovanni Tesio ha scritto: «Il dolore, i silenzi, i suoni e gli odori sono fili dell’ordito che intrecciandosi con la potenza/impotenza del verbo formano la trama di questa tela in cui il personale ed il collettivo si rispecchiano l’uno nell’altro».

E già dal primo testo l’autrice si confessa: «Io mi pento e mi dolgo in funzione di predicato, / perché nella verità di ogni verso mi sento in diritto / di dolore». La poesia racconta perché ha il dovere di testimoniare il suo presente, anche se «la difficoltà di questo vivere sta nel non capire / lo scopo».


C’è poi la centralità della lingua materna, il ladino, idioma dolomitico della sua Val Badia e, forse, metafora della poesia stessa: «A chëra che m’ȃ fat capí cun lingaz dla uma l’origina de mi corp, les mans davertes adincuntra ai sonns / pröms y fondamentai» (‘A colei che mi fece capire in lingua madre l’origine / del mio corpo, le mani aperte verso suoni / primi e fondamentali’). La figura della madre è quasi eternata in limine mortis; a lei ci si rivolge in una sorta di eterno presente, in un attimo che assume tutto lo spessore della ‘durata’: «Io ti irrigo. Irrigo te che sei terra promessa, che mi fai dono di esserne affluente dalla fede inadeguata».


Si giunge con queste premesse alla prima sezione, Versi per voce senza canto. Qui la poesia è chiamata a scarnificarsi, a privarsi di ornamenti e discrezione. Bisogna porsi in ascolto, fuggire dal vizio di «credere l’altro una bestia». L’indifferenza è muro, barriera, taglio netto, confine; la voce della Dapunt incoraggia invece a scuotersi dal pantano fetido del menefreghismo per riappropriarsi di un rapporto vivificante tra uomo e storia. «In questo rovinato tempo, magro della sua bellezza» si avverte un senso prepotente di dispersione. Nel frattempo «è morta la Uma» (‘madre’ in ladino) che, oltre la solennità della morte, ha insegnato come nominare il mondo.

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La seconda sezione, Trilogia sui sensi, si fonda sulla differenza tra tempo dell’uomo e tempo della natura, con evidenti echi del Leopardi che si scagliava contro il secol superbo e sciocco e le magnifiche sorti e progressive. «E in questo piccolo oggi, mentre l’uomo cammina / nella certezza di un progresso, le montagne / sembra stiano ferme», «valgono un tempio mai costruito, un sacrario / consacrato alla volontà di un ordine elevato». Pure il semplice stare a osservarle è un atto d’amore dovuto. E lo è ridare voce ai vuoti, alle mancanze, a ogni «sacra immagine del vero» come quella di Asra Panahi, studentessa iraniana uccisa perché non cantava l’inno dedicato alla guida suprema Ali Khamenei (nella sezione I ricercati, sette studi sul silenzio).


Tra Celan, Hölderlin, gli angeli di Simone Martini e quelli di Botticelli, nella quarta e ultima sezione, Tre vedute, si approda a un sentire nuovo, che preme «sulla congiunzione delle unità». Se è inevitabile che tutto muti e si deformi, allora amare significa accettare anche la fine. «Chiedo dunque al mio intelletto di proseguire / o meglio, come pormi al di sopra delle mie convenienze. / Guardare oltre a quello che vedo. Attraversare / il mio prato e l’abitudine dei suoi colori / a beneficio del solo verso scritto. Dissolvermi / per coerenza fra la forma e il contenuto, / per poter scrivere di nuovo e nuovamente il mio prato».



***


SULL’UNITÀ DEL VERBO


Il tempo, questa voce d’incerta origine

tra principio e fine, eppure senza mai cessare.

Cosa pensare e come pensarlo

tutto questo tempo in sovrabbondanza di sé

e io che non lo comprendo.

La mia mente riconosce sì un tempo in fiore,

le frasi del linguaggio colloquiale, un elevato dire

che scrive un verso e un altro verso ancora

e forma e diventa un tempo di poesia.

All’opposto il tempo ora non mi contiene,

il suo insieme non ospita nulla di mio.

Misera condizione è la dispersione che sento,

diaspora dei pensieri che non porta all’unità del verbo.



IN PICCOLA MISURA


A te vento incline alla mia tristezza,

chiederei di indugiare, stare a lungo tra i miei capelli

per tenere nell’unica mia espressione possibile

il valore del verbo essere umano. Tenerlo fermo

in questo luogo di sola natura e isolati sentimenti,

che loro purtroppo non sanno spiegarsi

e si muovono senza carità. Qui nel mio essere,

qui tra le mani affusolate e barocche,

il naso lungo e inclinato, scoscesa dote

che serba una memoria di avi e poco oltre.

Poco, poco oltre anche gli altri luoghi

e ciò che resta di questo sguardo

per vedere di poco più lontano.



***


Da tempo non ho più notizia

di me nei miei quaderni

e nulla coltivo.

E poiché non sono in atto mi chiedo se esisto.

Così come l’essere giovane diventa vecchio,

seppure sia sempre lo stesso essere,

il suo nascere e il suo morire rimangono

in rapporto di contraddizione.

E c’è chi dice addirittura: eterno!

Come a suscitare meraviglia, l’eterno tutto elimina.

Ma è questo un rapporto di antitesi. Un’incongruenza

imputabile solo al parlante. A colui o a colei

che parla e dice parole, manda fuori la voce

ma sulla carta non scrive e non raccoglie.



*

Fotografia © Richard Kalvar


04/07/2024

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