Recensioni
CARLOTTA CICCI,
“SUL BANCO DEI PESCI”
(L’ARCOLAIO, 2022)
di Gisella Blanco
L’esordio poetico, quelle volte che si riesce, rappresenta un momento focale in cui il raccoglimento personale si schiude verso l’esterno e inizia un dialogo pubblico con il terribile altro da sé.
Sul banco dei pesci di Carlotta Cicci racchiude una selezione di testi che va dal 2000 al 2015, ed è l’epifania della viandanza di una giovane donna lungo l’arco della vita vissuta sul crinale di «una verticalità spaventosa», e di quella parte di esistenza ancora da sperimentare nell’«unica possibilità di pazienza» che si concreta in una furente urgenza espressiva.
L’inizio del libro, non a caso, affida al concetto di ritorno, presente in forma verbale, il primo testo, come a voler annunciare, da subito, una perduranza dei fatti e delle azioni umane nel tempo collettivo, nonché una compenetrazione durevole tra frangenti personali ed epoche sociali: «Torna un qualunque mattino / batte il fegato del mondo / insopportabile».
Il primo atto rappresentato è la nascita, reciproco venire al mondo della Madre e della Figlia, occasione in cui la realtà si presenta a sé stessa nella benedizione all’incontrovertibile scorrere dell’esistenza che è sempre una e sempre plurima: «quanta umanità / ho messo al mondo». Roma, la città natale dell’autrice, appare come nucleo granitico e come roccaforte ascensionale di quell’evento, il parto, che immette l’ontologia nel tempo.
Una serie di azioni, contenenti anche delle omissioni de facto («fisso», «trattengo», «sorveglio»), delinea il climax dell’estrazione dell’origine dal presente, attraverso la forma di una maternità a tratti archetipica e antichissima, a tratti urgentemente attualizzante.
Le sequele spezzate di verbi, di modi di essere, di pose reali o simboliche, sembrano compiersi in una condizione di persistenza nel flusso disarmante dei fenomeni empirici, nominata appena ma presente in tutta l’opera: «accumulo / cado nel vuoto / persisto».
All’immagina icastica ma non fideistica di un ritorno alla verginità, a una invulnerabilità primordiale e paradigmatica, si contrappone una paura annichilente che «addenta il polso». Proprio il polso appare come lo snodo del movimento e la possibilità di presa sulle cose, ed è a quel livello che la paura diventa più aggressiva.
Nel dialogo con un’alterità – che sia sua figlia o sé stessa – emerge la sorveglianza sulla propria individualità, ma è una sorveglianza che, talvolta, si deve disattendere o sorprendere.
Se rimanere desti può sembrare un atteggiamento selvatico, dissacrante, impudico a tal punto da marchiare come una lettera scarlatta, l’allocuzione imperativa a un plurale estraneo ed eteroclito rivela il sarcastico dramma del domandare agli altri un nuovo perdono.
La preghiera di una madre ha la forma dell’offerta, come il sangue che dal ventre consente il radicamento della vita, la significazione primaria di ogni cosa: «il mio ciclo / radicante / significante». I versi contratti fino a consistere in una sola parola rendono il dettato netto e incalzante, necessario in ogni sua parte.
La realtà ha sempre avuto un nucleo distopico al suo interno; da questi versi lo si osserva con una ‘rabbia terrorizzata’, e perfino il sopraggiungere delle grazie – benevolenze quotidiane – sembra innaturale (o immeritato?).
Il crollo dei miti («piccola bestia») glorifica le nuove forme del reale («moltiplicami») e riunisce la tenerezza al macabro, legittima il delirio nella santità. È una poesia religiosa, come specifica Bertoni nella prefazione, ma non fideistica o metafisica: l’ancora alla spiritualità è saldamente conficcata nella realtà, nei ricordi e nella travagliata metabolizzazione del contesto antropologico in cui l’animale umano è eternamente morente.
Ci si può affidare a riti di purificazione ed espiazione che traggono il loro significato dalla quotidianità, come l’atto di bere acqua salata («è onesto il sale»), per propiziare un destino non imposto ma accolto anche attraverso il fascino della violenza dell’esperienza.
Lungo i testi si perpetra una sorta di dissacrazione della stessa santità che convive e coincide perfettamente con la sacralizzazione dei templi di fede – una fede mai ascetica -, compreso il corpo che, in quanto edificio sacro, appare in sembianti variamente distopici, relazionali: «tra le tue ossa che brillano / e le mie vene blu».
Il luogo natale, Roma, diventa «il calco perfetto» per la rivalsa, una rivendicazione straziante e controversa, perpetuamente difficile.
È sulla schiena e attraverso la schiena che l’io poetante si relaziona con l’esterno: una parte del corpo altamente simbolica che consente la posizione eretta e l’atto di scrivere (come spiega Bertoni) in una posa di chiusura che, per paradosso, consente il più ampio disvelamento della personalità. La schiena è come una corteccia che difende le parti molli dell’essere e, al contempo, è la curvatura della posa, la superficie che si espone quando ci si gira da un’altra parte.
L’io di questi versi esiste e consiste in immagini impressionistiche – ma mai mitiche – e nelle molte nominazioni di cose intangibili che danno sostanza all’indicibile, lasciandolo brutalmente non detto.
Non solo la Capitale costituisce la geografia emotivo-topografica di quest’opera: altre città si alternano come esperienze, frammenti lasciati cadere in una scia di significati, perturbazioni emotive, proclami feroci sulla troppa inconcludenza che caratterizza la vita ma che apre la via al possibilismo.
I simboli religiosi, nettamente decontestualizzati, si mischiano a elementi empirici entrando a far parte di uno scenario modernamente epico, dai tratti diacritici, indagatori e probabilmente polemici. Il ricordo, reale o trasfigurato che sia, si accosta al presente, lo scompagina, lo riorganizza: «segni sul collo / la tua persistenza / le nostre antiche premure / le mie rinomate riservatezze».
Il rinnovamento della visione delle cose passa per una minuziosa liturgia dei gesti che ne capovolge l’uso e il significato attraverso accostamenti sinestetici o paradossali: «sovrana circondo / stuzzico l’apnea / ti confesso tra i denti».
Una dichiarazione di fede mancata o negata («io non credo») è il sigillo di un panorama disumano all’interno della sua stessa periferia gnoseologica. Tutto il dettato risente di una costante opera di trasfigurazione del fatto nel simbolo tanto da staccarsi dalla comune percezione delle cose e restituirsi alla purezza dell’intuito.
L’io, «attimo dopo la separazione», è dilaniato ma resistente, si rivolge a una seconda persona plurale indeterminata che sembra essere quella folla di umanità staccata dall’individuo, quella distanza incerta tra l’uomo e i suoi simili, tutti diversi e dispersi. Lo stesso io non appare più unitario, si sfrangia nei dubbi, non riesce più ad assomigliarsi.
Il tratto degli epigrammi si mostra sicuro, spesso, strettamente concatenato all’incredibilità della parola poetica e alla (poca) credibilità dell’esistenza.
Il passato si rinvigorisce nelle dediche in esergo o nei testi (alla figlia, alle amiche, alla madre, a Roma) e rifunzionalizza i gesti del presente, pure senza ammodernare le immagini provenienti da tempi andati.
La relazione umana è riconosciuta come centrale nell’ecosistema della vita, al di là del preciso ruolo e della funzione (amori, amicizie, parentele): la cura è reciproca conoscenza e «sapienza dell’affondo». Immediato, a questa altezza, appare il passaggio dal dialogo al monologo interiore.
È proprio nella relazione affettiva che avviene il reciproco riconoscimento come «bestia cauta», avvezza all’abrasione, alla non compostezza delle cose. Per questa via, si autorizza l’identificazione, l’esposizione piena all’estremo gesto («ti mostro lo scheletro») delle «tregue disperate». L’«odore familiare» è una consapevolezza feroce e necessaria. Esiste, nella corrispondenza degli affetti, una radice mortale, letale, di abnegazione ed estasi, purché si mantenga vicinanza, «il tuo profilo di lato al mio».
Affiora, smisurata, la provvisorietà delle cose, annacqua i segni, confonde i confini. «Sono singolare» è una controtendenza dell’io poetante all’indistinto, alla pluralità tanto osannata nella società di oggi ma non sempre fisiologica.
I testi sono gremiti di piccoli e grandi moti, di azioni simboliche che ineriscono agli spazi, ai suoni, alla vista. Il corpo è sempre il nucleo attivo delle scene anche quando non è nominato ed è solo alluso attraverso le sue singole parti, talvolta ricorsive come la schiena della quale si è già accennato, la bocca, il volto, la gola.
Gli accostamenti semantici, che non raggiungono lo shock della brusca separazione tra testo e realtà, incarnano e confermano la cifra stilistica di Cicci, eclettica e personalissima, in cui si convogliano echi di importanti scritture femminili (la Plath più severa, la Merini meno assertiva, la Adrienne Rich della femminilità plurale, la Atwood intimista) che, però non si vanno mai a sovrapporre alla voce autoriale.
Il tono, pur essendo sempre molto intimo e confidenziale non è mai del tutto confessionale: pur tenendo bene a mente che la poesia confessionale non è un’esternazione privata ma contiene una radice vivacemente sociale ed estroflessa, la poesia di Cicci appare fondata su un’esperienza direttamente vissuta come collettiva o comunicabile, e non inizialmente solo personale.
La reazione al degrado sociale e alle storture comportamentali è una costante di queste poesie («mentre eretici chiamate amore / così tante cose // anche me») ma senza nessun atteggiamento di superiorità bensì di totale immersione nel dolore per ciò che non si può accettare e nello straniamento causato dagli habitus che hanno disperso l’umanità nell’abitudine alla sopravvivenza: «sola sono tutta mia».
L’ultima sezione, forse più fortemente legata a ricordi terribili, registra una inquietante e tormentata presenza del sangue che, tra memorie paterne e materne, richiama il guscio fetale di un’infanzia in cui non si può permanere, vivendo una perdurante espulsione dal grembo dell’affidamento.
Ma è proprio dalla fine della propria età infantile che rinasce la vita, la figliolanza («e mia figlia salverà il mondo»), la «disciplina violenta» di un continuo accadere dell’esistenza nell’universo e della totalità dei fenomeni nell’incessante creazionismo umano, di cui la poesia è prova vivente.
***
Regina vorace
tra preghiere ignote
uguali alle mie
consèrvati come un gioco
negli angoli delle Chiese
tocco il tuo odore di sonno
con i resti della mia schiena
la più sottile delle corde
è agonia nel fondo della testa
casuale rimarrò di perla
in un armistizio
tra le tue ossa che brillano
e le mie vene blu
***
Torna un qualunque mattino
batte il fegato del mondo
insopportabile
nessun presagio
sul palmo della mano
in un passaggio
di vortici e soglie
con l’anima capovolta
in un improvviso odore
di fieno e sale
nel delirio
lei nasce
il suo respiro
come una carezza
assoluta
un suono
piccolo
***
In attesa del sangue
reclamo il fondo del lago
vegeto tra il rosa e il nero
sul ciglio di raffiche notturne
sono risorta da un’epoca
mancata e putrida
da un sepolcro che sembrava
la fine di ogni dolore
dove nessuno sarebbe rimasto
tra delitti e scoperte
tra l’autunno e le cosce
la mia anima è svanita
tra i seni
nelle città mutilate
nelle acque mescolate
in frammenti di stoffe
e vortici di silenzio
schegge di vetro
riflettono le macerie
ricoperte da lenzuola
che scivolano come illusioni
tra le braccia lacerate
i pensieri inarcati
gli alfieri sacrificati
le scuse stanche
le comode menzogne
i sentieri disperati
gli incubi intrecciati
i destini avvelenati
i ciarlatani raffinati
i sogni emarginati
i mari ritratti
i respiri straziati
le ultime parole
mai pronunciate
è tutto impigliato
nell’opera del mio scarto
dove sono primizia accecata
col petto in fiamme
in questa ombra
allagata dal tutto
che geme e ride
tra i rumori fuori
*
Fotografia © Danny Lyon
14/02/2023