Recensioni
GIOVANNI IBELLO,
“DIALOGHI CON AMIN”
(CROCETTI, 2022)
di Davide Toffoli
Poesia dal sapore sacro, quella di Giovanni Ibello, «il più antico dei nostri giovani poeti», come lo definisce Milo De Angelis nell’introduzione a questo lavoro: «il suo verso si immerge nelle origini, possiede il respiro cosmico dei poemi greci e indiani, è ricco di archetipi, presagi, divinazioni».
La prima parte, Yucatan, si apre con un flash dal potere onirico – «La poesia è un lunghissimo addio» – che prepara al clima dell’intero libro.
Tutto si gioca sulla parola («Ci lega la parola feroce, / una giostra di penombre. / L’incanto di una teleferica, / l’esatto perimetro di un grido») e sulla tirannia d’amore. Tutto anticipa e fa presagire un disfacimento, mentre la vita è «una giostra di tagliola e vento». Se la parola «era il nostro Yucatan», Amin ha voce di sfinge, smarrita «nel santuario delle nebbie», e «ogni cosa si annuncia solo mentre si sfigura».
Anticipa la seconda parte, Teorema dei roghi, una citazione di Cristina Campo («Di ogni parola inutile ci verrà chiesto conto»), richiamo esplicito all’essenzialità e alla sacralità del silenzio. «Se vuoi arrivare alla lacerazione / non dire una parola / che sia una». Un dettato incisivo, bradisismico («Ogni cosa rivela / quel nulla che siamo già stati»), colto nello «stato embrionale della vita», nella «lesione tellurica» che attraversa la notte («Mai nessuno / ci ha chiesto di essere vivi»).
La terza parte, Beware of God, nasce sempre in assenza di luce, si direbbe quasi di vita, con versi che a volte sembrano gocciolare come sangue («Amin / noi / siamo / soli») e ci precipitano nel cuore di una metamorfosi perenne, dove si affaccia anche la Napoli di Maradona, un fuoriclasse spento «che accarezza la palla con la suola, / che infila l’incrocio dei pali, e non esulta», «icona consustanziale di martirio e redenzione» (Gisella Blanco) impressa sopra un muro di cemento.
Luce cariata dell’avvenire è invece un passaggio delicato, composto da dieci testi che consapevolmente accettano di sporcare la luce, aperti da una vera rasoiata: «Scrivere, ammettere la colpa». Nel retroterra del sogno in cui la notte persiste, riaffiora un grido: «Sei tu la mia regina assira, / l’ambasciata del vento, / la poesia che mi farà sole». E il respiro «si risolve / in un orgasmo neuronale», come un’implosione di pianeti nella mente, «una turbativa siderale / del corpo che ritorna seme» per una terrestre resurrezione. Ci scopriamo cacciatori e prede sopra «un letto di eucalipto e malva».
Se è pur vero che il dio inseguito è ovunque, è anche vero che si palesa soltanto nell’assenza e nel silenzio; la poesia di Ibello, intima e lacerante, indaga con garbo e discrezione, nel suo salmodiare al tempo stesso ancestrale e moderno dove la singola parola diventa macchia della luce, tra la terra e il suo altrove.
***
Cercava la risacca nelle pinete
fiutava l’ombra di un ago sul fondale,
la panacea di un abbandono.
Conta fino a zero, le dissi
salta nell’arco cinerino.
È tutto calmo
qui è davvero tutto calmo,
il sole è una biglia di benzodiazepine.
C’è ancora un intreccio
di gelsomini carbonizzati sulla pietra.
L’estate,
una valanga di aceto sopra i fiori.
Ma in questo valzer di occhi crociati
non dire una parola,
non parlare.
Troveremo un altro modo per fare alta la vita.
***
Di quello che sognavi veramente
non resta che un silenzio siderale
una lenta recessione delle stelle
in pozzanghere e filamenti d’oro.
E il riverbero delle sirene accese
sui muri crepati delle case.
Così dormi, non vedi e manchi
il teatro spaziale delle ombre.
Il desiderio è l’ultimo discanto.
Ma quanti gatti si amano di notte
mentre l’acqua scanala nelle fogne.
***
Nasce incendio e muore sole
questa gioia che torna a intiepidire il vento.
Torneremo a dire grazie per il buio,
per l’alba dei rasoi.
Per ogni fuoriclasse spento
che accarezza la palla con la suola,
che infila l’incrocio dei pali, e non esulta.
Come una prostituta annoiata da dio
anche tu volevi fare alta la vita.
Cercavi il tuono nelle serrande,
dribblavi fiori, altalene,
elefanti di vetro. Dicevi:
«Sono felice perché non sono qui».
***
Vedi, c’è un cormorano
che brucia nell’ultimo sole.
L’antico rito della caccia impone
un letto di eucalipto e malva per la preda:
è la forma minima del silenzio.
Avrei perdonato mia madre
se non fossi nato per amore.
*
Fotografia © Christopher Anderson
01/03/2022