Recensioni
CRISTINA ANNINO,
“AVATAR”
(AVAGLIANO, 2022)
di Antonio Bux
Avatar è l’ultima opera di Cristina Annino (Arezzo, 1941 – Roma, 2022), uscita postuma lo scorso marzo per i tipi di Avagliano.
Ancora una volta il canto della compianta autrice toscana si contraddistingue per la sua forza impersonale, eversiva, tinta di un sarcasmo pungente, mai banale.
Nella lunga e originale traiettoria compiuta, la Annino è sempre rimasta fedele al proprio ‘fare poesia’, in senso per davvero materico, e in Avatar la sua scrittura continua a fondarsi su una commistione di interessi sia visivi che lirico-musicali. È così che riesce a trasformare un fantomatico ermetismo in filosofia del linguaggio poetico. Parrebbe un divertissement, ma si potrebbe tranquillamente parlare di dadaismo, come finanche di poesia civile, di un civile però votato alla metrica, al suono. C’è una sorta di espressionismo implicito a legare il tutto. Rinnova la lingua popolandola di voci multiple e di personalità ondivaghe, oggettivando con fantasticherie o, se vogliamo, fantasticando nell’oggettività.
Pure in questo lavoro se ne ha conferma: il tono affabulatorio, la messa in scena di un irriverente teatrino ritmico-verbale, danno vita a una poesia di elementi che giocano in maniera quasi distopica sul tavolo dell’esistenza, in cui l’io è un automa perennemente in bilico tra evoluzione e disfacimento. Un canto rigoroso nella sua veglia elettrica, che sorprende per la lungimiranza prosodica e coinvolge direttamente il lettore, calamitandolo nell’attenzione del mondo e delle cose tramite l’enunciazione dell’avvenimento, che non è meta-cronaca ma concatenazione di realtà possibili, configurazioni astrali e terrestri di significato e mistero.
In definitiva più respiro (ritmo) che immagine, anche se di immagini si nutre formando un mosaico, un’architettura plastica, mai fredda, che anche laddove niente accade, in realtà crea. L’avvenimento poetico è compimento della vita stessa riscritta attraverso l’occhio attento, clinico e guizzante della Nostra, che è stata e resterà figura autonoma e originale nel panorama contemporaneo. E la sua prova finale ne è il più bel testamento in versi, il lascito di un’opera tra le più mature e radicate che si possano leggere di questi tempi, giacché qui le peculiarità della produzione anniniana non solo si confermano, ma riprendono vitalità e nuova carica.
C’è da dire che la sua poesia ha costantemente attinto dalle arti visive (fu anche apprezzata pittrice) e in Avatar tale fattore risulta vieppiù evidente: se i precedenti lavori sono costruiti come veri e propri quadri o patchwork verbali, dove un occhio-tinozza raccoglie forme sgargianti dal buio di un universo parallelo, quest’ultimo libro mostra l’essenza del movimento nel suo interno più vigoroso.
Materia pensante, o pensiero che si fa corpo vivente, o ancora pietra (di paragone?) che si reinventa e che resiste tra le trame dei versi e della Storia.
IL CLONE
Mento quadrato e occhi a
capanna; quando si rade, sul
collo gli spunta il gemello. Non
è un parto, sta eretto. Si
cretta, ecco, un vivaio piccino tra
le vertebre sacre e uno scratch di
rumore
entra nell’universo. Tutto qui.
Gente con braghe aperte
scappa dal water appena lui
gira
le facce, come un panzer
lentamente il mortaio. Nel
cesso intanto: il manicomio,
presto, un pompiere… forse!... dov’è
sul banco?... Noo, l’elenco!!! Lui esce –
silenzio – lui mostra
in aria il petto senza gemello,
osserva la gente invadente che
c’è, spalanca il vetro, poi va, mento
verso, com’un troiano alle porte.
Questo, Dio creò, tutto il resto
crebbe.
Dico invece che capire sarebbe
la più orgogliosa
coscienza di
spazio; stiamo in Terra e non
è una pineta per nani!
Marziani di
Scienza ci sono, può darsi! Ma
siamo chiusi. Per tale
nostalgia nei pori si cade a
vite in fondo ai bicchieri, una
mosca al giorno toglie il medico
di torno. Il Pensiero. Ok! Ma
non dormo! L’idea di quello mi
riporta nei gabinetti, vedo
panzer, mortai, vedo
letti di manicomio, troiani e le porte,
vedo Archimede affogare
nell’acqua d’ogni
tazza e Platone com’eravamo
noi. Lo chiamavano il Clone.
POETA ALLO SPECCHIO
Si guarda con ossessione, con
stato morale, fisico, di mente, con suo
padre, madre, gente della vita. Col
macello dell’ansia e gli eventi del viso,
i tuoi tic. Somiglia
lentissimamente a un Dürer, così solo
pelle, o a una lancia; il codice
fiscale tra le ciglia.
S’acquatta sulle gambe e la Storia è
lì, con Darwin e le scimmie.
RISCATTO
Faremo di tutto per un
cognome. Ci daremo arie, guariremo da questa
tosse. E ogni posto
riandremo a vedere per strada, in quella
vera, dove l’aria ha la crema del nome
nostro. Cosa
non faremo per questo! Per come per anche per
esempio. Per quando, per anzi, per meno
di tutto il resto. L’ossessione
nell’arterie diventata più di quella dell’oro.
SOFFOCARE NELL’ERBA
Allora, a casa, nella pianta vegetale di
casa, dove l’edera si moltiplica
correggendo ogni massa di cultura
impropria, errata corrige o tavoliere di
Puglia che guarda con
l’esofago senza
colore l’acqua. Elenchiamo
i peccati: la fede dovrebbe
essere laica, in primis dico, dovremmo
pregare col viso in avanti e fessure
bronchiali, canali sottili, dispersione gassosa.
Siamo noi i capitali nemici nostri!
Si sberleffa
la brace coi piedi intatti, si fuma. «Ne abbiamo
fatti di miracoli!» dico al cane che
s’estende
millimetri sulla cintura, «ma ormai più niente
è soltanto una Cosa».
ARRIVEDERCI
Si afferra la sorgente
dell’urlo. Ci sono cose al mondo
che bisogna scordare, trattarle
da cinesi con le perle o reti a mano
senza scrupoli. Sarà l’arrivederci, se rivedrò
quel braccio salire le scale come un
monco, poi le parole non stanno ferme, cadono
su ognuno col becco in su. Succede
allora che sedersi è un urlo. Ci sono esempi
di nostalgia tremenda da vergognarsi, del
cielo che non c’è più e dovrebbe
rifarsi e non servirebbe neanche
un parto. Perché si deve ricordare ma
scordarsi come chi scala col secondo braccio
la rampa e nessuna parola parla. Finita
la lagna dei rimproveri e dei discorsi, dei
polli finiti a collo in giù nella salsa
dicendo arrivederci, con la schiena rifatta
a regola d’arte, gesso nella minestra
rossa di peperoni dalla vergogna. Non serve
fumo sulla tovaglia per Arri e
Vederci. Cambiano gli anni nella scossa
dei secoli ed è orrenda massa vivere oggi
trecentomilaottanta se non
conosco chi abitò una stanza prima
di me. Eppure dico le gambe avranno un
senso se stento sedermi sulla sedia. Perché
c’è stato un tempo più saggio in cui non
esisteva né io né tu né loro; si era tutti uguali
alberi di radici senza cemento; un frutto sul
costato e intorno animali.
*
Immagine di copertina: Herbert List, Schiava II, 1936
03/05/2022