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Recensioni

ANTONELLA ANEDDA,
“NOTTI DI PACE OCCIDENTALE”
(DONZELLI, 1999)

di Davide Toffoli

Notti di pace occidentale è uno sguardo, privilegiato e illuminato, dalla ‘terra promessa’ («Vedo dal buio / come dal più radioso dei balconi») sulle troppe morti in mare nell’illusione di poter raggiungere il destino di un luogo di resurrezione sociale, anche se «ciò che chiamiamo pace / ha solo il breve sollievo della tregua». Una tregua che incarna il presente («Ciò che si stende tra il peso del prima / e il precipitare del poi») nell’immagine mediatica della guerra nei Balcani. «Poesia lirica tragica di impianto analogico» – come la descrive Maria Borio – in cui il transito da un luogo all’altro è senza una vera meta.

La scrittura offre un passaggio attraverso lo spazio fisico e lo fa (ritmicamente) suonare. «Non esiste innocenza in questa lingua» che sorge dal silenzio e dalla libertà, una lingua in cui la parola «si spacca come legno». I dettagli emergono dal suolo, bellezza e ironia si rafforzano dentro un mare indistinto, nel silenzio che, a fatica, si chiamerebbe pace.

Una vera poetica, quella di Antonella Anedda, che tratteggia spaccati di reale e decolla nella deflagrazione delle suggestioni: «Tutto si perde / tutto viene scagliato lontano. / Il mondo si trasforma in polvere / in quella sabbia che i condannati vedono / prima di colpirla con la nuca».


Incombe una guerra vicina, proprio nella costola di questo Occidente distratto e irridente: «La città si assottiglia nel lampo della pioggia imminente». Nel secolo che va a chiudersi sembra esaurirsi anche un’idea di rassicurante benessere, lirico persino nei suoi sacrifici. Il pensiero di scrivere dilaga, si fa luce e strada nella notte, e ad essa si genuflette.

«Forse l’anima non esiste ma esistono i suoi luoghi», ed esiste l’inverno come postura fondamentale, come luogo di indagine interiore, perché «c’è verità nella luna che sale». L’inverno quindi assunto come dimensione del vero, come quiete condivisa e insieme preda degli eventi, sempre esposta ad ogni sorta di intemperie («Nel vento di queste sere non esiste che vento»). L’individuo è un sopravvissuto che, avendo attraversato il dolore, riesce ormai a decodificare il reale. Il buio, freddo, è già preludio alla notte, che «insegna solitudine / sceglie un nome alle cose: al muro / nell’alba d’estate».


La terza sezione, Notturni, persiste nello strizzare l’occhio alla Cvetaeva o a Celan, tra bagliori e ombre, in notti fredde e spinose o nell’alba spezzata dalla sete. A maggio torna prepotente la terra di Sardegna, isola che diventa casa anche del linguaggio, quasi una geografia parallela, dei luoghi e dell’anima: «Laggiù – l’orizzonte. Qui – nella stanza – muore il cane più amato con il muso socchiuso alla luce quasi finito di una mano invisibile». È questo «cono di luce» a filtrare il punto di vista del buio. Viene in mente – come suggerisce ancora la Borio – lo Iosif Brodskij di Ninnananna di Cape Cod, che scrive del suo ‘occidentale’ esilio negli Stati Uniti, mentre dalla sua isola della Maddalena, in queste Notti di pace occidentale, Antonella Anedda guarda all’Italia, ma soprattutto alle guerre del Golfo e dei Balcani.

Tra crepuscoli e penombre, riecheggiando il Diario ottuso di Amelia Rosselli, Anedda ibrida il verso libero e la prosa, giocando sapientemente sul ritmo. Di qui nasce una «musica diversa» che non riguarda la musicalità né solo la metrica, ma un pensiero sedimentato: «Il ritmo viene da un suono altrimenti udibile, di fenditura mentale che fa intravedere l’immagine e il suo enigma».

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In questi versi, frutto artigianale di una sapiente commistione musicale e pittorica (scaturiti peraltro dall’evidenza biografica dell’autrice), tornare al buio, al silenzio, alla notte ha il sapore di un salvifico ritorno alle origini: «Chiudi gli occhi. Pensa: lepre, e volpe e lupo, chiama le bestie che cacciate corrono sulla terra rasa e sono nella fionda del morire o dell’addormentarsi sfinite nella tana dove solo chi è inseguito conosce davvero la notte, davvero il respiro». Forse è proprio questo il passaggio grazie al quale la notte può divenire epifania. Anche la notte di dicembre, nello specifico quella di Santa Lucia, è soprattutto un contrarsi per tornare a raccogliere luce. È attesa, memoria, pensiero, nella duplice accezione di ‘preoccupazione’ e di ‘immaginazione creativa’.


È tangibile la ciclicità di vita, morte e resurrezione in queste preziose pagine, e la ciclicità assume la sua forma più consona nel dispiegarsi centrale del ritmo, mai dissonante o separato dai versi, ma capace di farsi viluppo, incontro, abbraccio. Diventa struggente ricordo di Amelia Rosselli, scomparsa tre anni prima: «Felice notte a te / per sempre priva di abisso». La vita è un viaggio dal buio al buio: «Non ho voce, né canto / ma una lingua intrecciata di paglia / una lingua di corda e sale chiuso nel pugno / e fitto in ogni fessura / nel cancello di casa che batte sul tumulo duro dell’alba / dal buio al buio / per chi resta / per chi ruota».


Notti di pace occidentale è un libro da tenere ben stretto, che sa muoversi tra vertigine e contingenza, e crea costantemente intrecci di stili e di voci (oltre agli autori già citati, anche Mandel’ŝtam e Beckett) e pennellate di luce. Nato quasi per intero da un’isola (la Maddalena), nell’isola (la Sardegna) e nelle periferie del continente (l’Italia), il volume incarna la contrazione di un secolo sul punto di svanire, e rappresenta al tempo stesso un traguardo residuale raggiunto, un seme gettato a germogliare nel secolo successivo. La morte si pone, dunque, come passaggio necessario: «Cerca tra le cose che ami quale morirà per prima / quale ghiaia innalzare sul secolo che frana». Ciò che resta, ciò che sopravvive, è destinato a diventare essenziale per la ricostruzione e per trovare il coraggio di resistere alle inevitabili paure: «Cerca tra le cose che ami quali morirà per prima / combatti nonostante il tremore».

Restando appunto su questo tema del tremore, si può affermare che con queste Notti di pace occidentale la Anedda ci regala una candela nell’ombra, la cui luce esposta agli eventi si muove danzando nel soffio vitale del nostro stesso respiro, nell’abbraccio salvifico e lungimirante di ogni singola, miratissima, parola.



***


Se ho scritto è per pensiero

perché ero in pensiero per la vita

per gli esseri felici

stretti nell’ombra della sera

per la sera che di colpo crollava sulle nuche.

Scrivevo per la pietà del buio

per ogni creatura che indietreggia

con la schiena premuta a una ringhiera

per l’attesa marina – senza grido – infinita.


Scrivi, dico a me stessa

e scrivo io per avanzare più sola nell’enigma

perché gli occhi mi allarmano

e mio è il silenzio dei passi, mia la luce deserta

– da brughiera –

sulla terra del viale.


Scrivi perché nulla è difeso e la parola bosco

trema più fragile del bosco, senza rami né uccelli

perché solo il coraggio può scavare

in alto la pazienza

fino a togliere peso

al peso nero del prato.



***


Vedo dal buio

come dal più radioso dei balconi.

Il corpo è la scure: si abbatte sulla luce

scostandola in silenzio

fino al varco più nudo – al nero

di un tempo che compone

nello spazio battuto dai miei piedi

una terra lentissima

– promessa.



***


Benedetta tu a distanza

la più innocente tra le cose lontane

nicchia di tavolo e mela

una sfera un piano e contro l’alta fiamma del fuoco

le due forme congiunte a scavare il nitore di un vano.


Nulla in realtà ci chiama

eppure ci accostiamo agli oggetti

quasi fossero gli echi di una voce

l’annuncio indifeso di altre vite.

L’acqua nera, la sagoma del cane contro il molo.

Nessuno può dirli ricordi e fischiare davvero come allora

ma noi vediamo le tre stanze, lo scatto

di chi ancora viveva

e a un tratto gli armadi ci rimandano

un fuoco errante la stella incerta di un viso.


Nulla è compiuto nulla è ancora profondo.

C’è solo il tonfo di una calce improvvisa

e queste grida tra felci che sferzano le schiene

grida che non capiamo come accade nel buio agli inseguiti.


Alberi, corpi, folate contro i muri.

Basta un gesto: il rovescio di un gomito che spegne una candela.


Di colpo diventiamo ciò che aveva tremato.


09/03/2021

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