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In questo articolo si prende in considerazione la presenza del mondo animale nella poetica di due autrici, Anite di Tegea e Antonia Pozzi; figure femminili assai distanti tra loro sia cronologicamente che in relazione al contesto geografico-culturale, ma in buona misura accomunabili per la levità e la grazia nella scrittura.


La rappresentazione dell’animale in letteratura è condizionata da una visione antropocentrica di matrice biblica ed aristotelica. In particolare, Aristotele presume la superiorità dell’uomo in quanto dotato di ragione e di capacità di parola. Tuttavia non mancano le voci dissonanti, riconducibili soprattutto alla tradizione pitagorico-empedoclea; lo scrittore e pensatore Plutarco, ad esempio, riconosce l’animale come parte integrante nel consesso dei viventi.

Nella poesia greco-latina, e specialmente nell’epigramma, animali ed insetti compaiono con una certa frequenza, talora nel ruolo di aiutanti, altre volte come antagonisti dell’io lirico. In un testo del prolifico autore Meleagro (II-I sec. a.C.) si esorta una zanzara a recarsi in veste di messaggera presso l’amata, attesa invano (cfr. ant. pal. V 152); diversamente, i volatili sono destinatari di invettive, talvolta minacciose, per la consuetudine di disturbare il sonno di primo mattino: così il gallo in Marco Argentario (ibid. IX 286) e le rondini in Agazia (ibid. V 237).


La poetessa Anite, vissuta tra la fine del IV e il III sec. a.C., proveniente da Tegea, località dell’Arcadia, fu definita «Omero donna» in quanto autrice di componimenti di ispirazione epica, oltre che di epigrammi. Secondo alcune fonti, Anite fu a capo di una scuola poetica nel Peloponneso e, a motivo dei suoi meriti, i concittadini le eressero una statua. Di lei ci sono pervenuti ventuno epigrammi, tramandati nell’Antologia Palatina. La natura costituisce un elemento di rilievo nella produzione della poetessa, che è solita dedicare una particolare attenzione ai bambini e agli animali. Così nei versi che seguono (ant. pal. VI 312):


     I ragazzi ti hanno messo briglie di porpora, o capro,

     e un morso alla bocca pelosa, e giocano alle gare

     dei cavalli intorno al tempio del dio, perché tu

     mite li porti mentre si divertono.


Una descrizione di un gioco infantile, in cui l’interlocutore-protagonista risulta essere il capro, ritratto nel farsi complice dei fanciulli, che si divertono a cavalcarlo come fosse un cavallo. L’animale è raffigurato nella sua arrendevole mitezza, in un quadro di bucolica serenità.

Gli altri due testi che riporto rientrano nella tipologia degli epitaffi funebri (ibid., VII 190; VII 202).


     A un grillo, usignolo dei campi, e a una cicala,

     abitante di querce, una tomba comune fece Miro

     versando lacrime di fanciulla; entrambi i suoi giocattoli

     le portò via Ade crudele.


Il contesto è in parte analogo a quello del precedente epigramma, e rimanda ai giochi della fanciulla Miro con un grillo e una cicala. I due animaletti sono contrassegnati da epiteti generici, riconducibili all’ambito campestre. Ma qui l’accento è sul dolore della bimba per la simultanea perdita dei suoi «giocattoli» e sulla delicata sensibilità con cui Miro predispone loro un comune sepolcro.

Nel componimento successivo, invece, l’io poetante si rivolge a un gallo:


     Non più come prima, battendo le fitte ali,

     mi tirerai giù dal letto svegliandoti di buonora;

     mentre dormivi, un ladro si avvicinò di soppiatto

     e ti uccise, affondandoti in gola le rapide unghie.


Il volatile non viene esplicitamente nominato, ma è reso ben riconoscibile attraverso precise caratteristiche e azioni. La notizia della morte violenta del gallo, non esente da dettagli cruenti, è anticipata dalla malinconica constatazione del venir meno del suo canto; all’assenza fisica si accompagna la scomparsa della voce, elemento, questo, di grande attualità e interesse.

Nell’insieme, possiamo osservare come negli epigrammi di Anite il rapporto uomo-animale sia tendenzialmente armonico e sereno; gli uomini sono allietati dalla vicinanza degli animali e si addolorano per la loro dipartita. Certamente non vi è ancora la prospettiva di una relazione paritaria: l’animale si configura, di fatto, come un giocattolo per fanciulli e si inserisce in descrizioni generiche e stereotipate, ma costituisce una presenza costante e sicura nell’umana quotidianità, senza divenire oggetto di prevaricazione.


Nel corpus di versi della poetessa milanese Antonia Pozzi (1912-1938) il mondo animale è una ricorrenza tanto significativa quanto soggetta ad evoluzione. In una prima fase, sulla scia di una tradizione lirica riconducibile a Pascoli, ma anche a Saba e a Montale, gli animali rivestono principalmente una funzione simbolica. Così, ad esempio, le rondini sono metafora della solitudine o della sofferenza per un amore infelice, mentre la farfalla rinvia al disagio esistenziale.

È a partire dal 1933 che si riscontrano cambiamenti di rilievo nella rappresentazione dell’animale nella poesia pozziana, soprattutto a partire dal componimento Per un cane (scritto per l’appunto in occasione della morte del suo cane; cfr. A. Pozzi, Parole, Garzanti, Milano 2001, p. 139).


     Sei stato con noi per undici anni.

     Una sera siamo tornati:

     eri disteso davanti al cancello,

     il muso nella polvere della strada,

     le zampe già fredde, il dorso

     tepido ancora.

     Ora sei tutto

     nella buca che ti abbiamo scavata. 

     Ma gli undici anni

     della tua umile vita,

     il gemere

     per ognuno che partiva,

     il soffrire di gioia

     per ognuno che ritornava

     – e verso sera

     se qualcuno

     per una sua tristezza

     piangeva

     tu gli leccavi le mani:

     lo guardavi

     e gli leccavi le mani –

     oh, gli undici anni

     del tuo muto amore

     tutto qui

     sotto questa terra

     sotto questa pioggia

     crudele?

     Esitavi

     sulla ghiaia umida:

     sollevavi

     una zampa – tremando.

     Ora nessuno ti difende

     dal freddo.

     Non ti si può più chiamare.

     Non ti si può più dare

     niente.

     Solo le foglie fradice morte

     cadono su questo pezzo

     di prato.

     E pensare che altro rimanga

     di te

     è vietato:

     di questo il nostro assurdo

     pianto si accresce.


Colpisce la reiterata oscillazione tra il passato (gli anni di vita dell’animale) e il presente (il tempo della sua morte). La contrapposizione tra i due piani temporali si concreta nel ricordo del «muto amore» che il cane era in grado di dare, da un lato, e nella rappresentazione del corpo esanime, dall’altro, su cui si innesta l’amara enunciazione finale: «E pensare che altro rimanga / di te / è vietato». La Pozzi allude qui alla credenza, fomentata dalla religione cristiana, secondo cui agli animali, privi di anima, sarebbe preclusa qualunque forma di sopravvivenza ultraterrena; credenza che non può che accrescere lo sconforto della perdita.


I versi di Per un cane si inseriscono con una nuova sensibilità nella tradizione poetica dell’epitaffio per un animale, sia per la qualità dell’affetto tra l’uomo e il cane, sentimento profondo e reciproco, sia per la coscienza della dolorosa separazione tra la sfera umana e la sfera animale, a causa dell’impossibilità di una sopravvivenza post mortem per quest’ultima.

Se già in questo componimento il dramma personale si fa occasione per una riflessione esistenziale di più ampia portata, in una poesia più tarda di alcuni anni, Sete (1937), si ravvisa un ulteriore sviluppo (cfr. A. Pozzi, Parole cit., p. 288):


     Or vuoi ch’io ti racconti

     una storia di pesci

     mentre il lago s’annebbia? 

     Ma non vedi

     come batte la sete nella gola

     delle lucertole sul fogliame trito?

     A terra

     i ricci morti d’autunno

     hanno trafitto le pervinche.

     E mordi

     gli steli arsi : ti sanguina

     già lievemente l’angolo del labbro.

     Ed or vuoi

     ch’io ti racconti una storia d’uccelli?

     Ma all’afa

     del mezzogiorno il cuculo feroce

     svolazza solo.

     Ed ancora

     urla tra i rovi il cucciolo perduto :

     forse il baio in corsa

     con lo zoccolo nero lo colpì

     sul muso.


Si delinea uno scenario di desertificazione, devastazione e morte. Gli animali menzionati gravitano nei campi semantici della sofferenza, dell’annientamento e della solitudine. Nel suo saggio sugli animali nella poesia pozziana (vedi bibliografia), Ornella Spano fa notare come in Sete si possa individuare l’avvenuta maturazione della consapevolezza ecologica dell’autrice. In effetti, la lettura in chiave ecologica, legata cioè alle interrelazioni tra i viventi nella loro casa comune, l’ambiente, unitamente al contesto storico (si consideri la convergenza cronologica con il massacro di Guernica), contribuisce a evidenziare la portata innovativa della lirica. La cieca violenza che tutto devasta colpisce non soltanto l’uomo stesso, ma anche il mondo animale, in una inesorabile deriva apocalittica. Per quanto sembri arduo cogliere in questi versi un’attenzione all’ecologia nella sua valenza attuale, è significativo come si intraveda in essi un’idea di ecosistema, la coscienza dell’oikos martoriato in una tragica catena di propagazione del dolore.



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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE


Fiore dell’Antologia Palatina, Garzanti, Milano 1977.

Antologia della letteratura greca. Il periodo ellenistico, Zanichelli, Bologna 1991.

A. Pozzi, Parole, a cura di A. Cenni e O. Dino, Garzanti, Milano 2001.

O. Spano, Gli animali nella poesia di Antonia Pozzi, «Italies» 12, 2008, pp. 455-474.


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Immagine di copertina: Jheronimus Bosch, Trittico delle tentazioni di sant’Antonio, 1500 ca.


01/02/2023

Ponte alla Luna

GLI ANIMALI IN POESIA:
ANITE E ANTONIA POZZI

di Francesca Innocenzi

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