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All’interno dei vasti territori della poesia amorosa, l’idea della transitorietà della passione compare con particolare ricorrenza in ogni spazio e tempo, al punto da configurarsi come topos, ovvero come reiterata immagine ampiamente riutilizzabile, in nome dell’universalità del sentire, al di fuori di qualsiasi prospettiva stereotipante. In questo breve articolo, nell’ottica della valorizzazione del dialogo ideale tra i poeti del mondo classico e i contemporanei, proporrò tre epigrammi greci, tratti dalla famosa Antologia Palatina, e, a seguire, altrettanti testi scelti di autori italiani del Novecento: liriche in cui la consapevolezza della precarietà dell’eros è tratto unificante, in contesti e modalità comunicative differenti di caso in caso. Le fonti di riferimento sono, rispettivamente, il Fiore dell’Antologia Palatina (trad. di S. Quasimodo, Garzanti, Milano 1977) e la raccolta antologica Poesie d’amore del Novecento (a cura di P. Decina Lombardi, Mondadori, Milano 1992).

Tra gli epigrammisti, il poeta più antico della triade che prenderemo in considerazione è Asclepiade di Samo, vissuto nella prima metà del III sec. a.C.


     Un giorno giocavo con la seducente Ermione.

     Sulla sua cintura a fantasia di fiori, o dea di Pafo,

     in lettere d’oro era scritto: amami tutta

     e non soffrire se mai mi avrà un altro.


In questi quattro versi la relazione d’amore è presentata come un gioco, una schermaglia. L’autore si rivolge direttamente ad Afrodite, apostrofata come dea di Pafo (luogo della sua nascita), sua interlocutrice privilegiata. Il messaggio che la giovane Ermione reca all’amato è affidato ad una cintura incisa a lettere dorate; la richiesta consiste in un amore totale, ma non esclusivo e senza pretese di durata: del tutto assente nel testo ogni riferimento temporale.

Il mito ci racconta che la stessa Afrodite era dotata di un cinto magico in grado di renderla irresistibile; è possibile che Ermione sia una sua seguace, visto il modus amandi simile a quello della dea di Pafo, la quale, notoriamente, era solita coltivare le proprie relazioni finché persisteva il sentimento, senza tener conto di vincoli e giuramenti.

Il breve racconto in versi di Asclepiade non lascia trapelare emozioni né giudizi morali, ma pare accogliere con delicatezza l’amore nella sua immodificabile natura: pervasivo, totalizzante, prezioso, ma non eterno.


Il secondo autore che riporto è Meleagro di Gadara, prolifico scrittore vissuto nel I sec. a.C.


     Tu, sacra notte, e tu lampada, voi soli

     foste testimoni del nostro patto;

     lui giurò che mi avrebbe amato, io che mai lo avrei lasciato;

     voi due ne avete la prova.

     E ora lui dice che quelle promesse sono scritte sull’acqua;

     e tu, lampada, lo vedi in altri abbracci.


In questo epigramma si insiste sulla valenza del giuramento d’amore: l’io poetante e l’amato stringono il loro patto alla presenza di due testimoni: la notte e la lampada. Entrambi gli elementi sono spesso presenti negli epigrammi erotici, la notte in quanto tempo particolarmente propizio agli incontri, la lampada in quanto portatrice della luce necessaria alla veglia e alla visione dell’essere amato. Nell’ultimo distico l’apostrofe iniziale è reiterata con toni in disillusione ed impotenza: l’infido amante infrange il giuramento, disconoscendone il valore, e la lampada nulla può se non assistere muta ai nuovi amplessi del fedifrago. Una lirica suggestiva e ben costruita, in cui l’amarezza per un amore svanito sfocia in recriminazione per il mancato rispetto del patto tra gli amanti, secondo uno schema ben noto nella letteratura antica, da Teocrito a Virgilio.


Con un salto temporale di alcuni secoli, arriviamo a Paolo Silenziario (VI sec. d.C.), autore di circa ottanta epigrammi, quasi tutti amorosi.


     È dolce, amici, il sorriso di Laide; dolce scende

     il pianto dalle sue palpebre mosse appena.

     Ieri pianse senza motivo, poggiando a lungo il capo

     sulla mia spalla; così, piangente, l’abbracciai;

     e come da una fonte di rugiada le lacrime

     cadevano sulle bocche unite.

     A me che chiedevo: «Perché queste lacrime?»

     rispose: «Temo che tu mi abbandoni; siete degli spergiuri».


Questo testo di otto versi differisce dai precedenti per il focus sulle lacrime di Laide, donna dolce ed incline a dare sfogo al timore dell’abbandono, timore basato sullo stereotipo intorno alla natura volubile e infedele del maschio. L’io poetante suggerisce si tratti di una paura infondata («pianse senza motivo») e nel contempo ci mostra come la passione sia alimentata dalla sofferenza. Il tono è colloquiale (l’apostrofe è agli «amici», identificabili forse con gli stessi lettori) e si ricorre al discorso diretto. Il lirismo (si veda la similitudine al v. 5) si coniuga con il realismo, rendendo la lettura intensa e coinvolgente.


Passiamo ora a tre poeti italiani del Novecento che, allo stesso modo, si fanno testimoni della sostanza instabile e precaria dell’esperienza amorosa. Prenderemo le mosse dai versi di Sandro Penna (1906-1977).


     Ma insieme a tanto urlare di dolore,

     te scomparso del tutto dai miei occhi,

     perché restava in me tanto fervore

     ch’io posavo ogni giorno in altri occhi?

     Rimase in me di te forse una scia

     di pura gioventù se tu scomparso

     dalla mia scena la malinconia

     restava come neve al sol di marzo?


Questa lirica di otto endecasillabi uniti da rime alternate è apprezzabile per la musicalità e per l’enunciato fluido, che non rifugge da una pacata ricercatezza nella costruzione. I due blocchi di quattro versi ciascuno sono simmetricamente costituiti da due interrogative, attraverso cui si manifesta l’attitudine al monologo interiore. Il tu cui l’io poetante si rivolge è irrimediabilmente scomparso e funge da pretesto per l’autoriflessione. Nell’ambivalenza degli stati d’animo, alla disperazione iniziale si alterna una voglia di vita e di leggerezza. La sparizione dell’amato apre così la strada ad una meditazione più ampia e profonda intorno alla mutevolezza degli stati interiori e alla molteplicità degli io, che la fugacità dell’eros sa far emergere, in un’occasione di conoscenza di sé.


Anche la poesia di Daria Menicanti (1914-1995) gravita intorno alla problematicità dei rapporti d’amore, come nei versi riportati qui di seguito.


     Non ti domando sicurezze, mai

     con te ho pensato a un amore routine.

     Se torni, quando torni per favore

     non dirmelo. Son queste le cose

     che non voglio sapere, che so.

     Tu bada a non farmi promesse

     io a non chiederne.


Sette versi percorsi da una tangibile immediatezza nel linguaggio, dai toni quotidiani e colloquiali, con periodi brevi e incisivi. Parola chiave di rilievo è la negazione «non», che apre il testo e viene ripetuta per ben quattro volte a partire dal v. 4, emblema della negazione di ogni certezza sul sentimento amoroso e sulla realtà in generale. Analogamente al sopra riportato epigramma di Meleagro, la precarietà delle relazioni è data come inevitabile; ma qui è riconoscibile una riflessione gnoseologica più marcata: «Sono queste le cose / che non voglio sapere, che so». 

Se, da un lato, l’atto del conoscere consente di cogliere l’essenza delle cose, dall’altro espone al rischio del dolore: a ciò sembra alludere la contraddittorietà della locuzione, che proclama la rinuncia ad ogni illusoria convinzione circa la durata dell’amore e il controllo sugli accadimenti dell’esistenza.


L’ultimo testo da considerare in questa sede è di Valentino Zeichen (1938-2016).


     Se la tipografia del destino

     mi avesse impresso

     sul tuo corpo con tecnica

     d’indelebile tatuaggio e

     non quale labile decalcomania,

     ti sarei rimasto addosso.

     Malgrado il nostro patto

     di sbiadire accoppiati,

     ho sorpreso il tempo

     che stinge di nascosto;

     non sarà perché ti lavi troppo?


Undici versi liberi di andamento discorsivo, in cui il tu è rappresentato dalla persona amata. Il patto d’amore è metaforicamente espresso come segno sulla pelle. Il periodo ipotetico dell’irrealtà prelude all’impossibilità della durata, enunciata ai vv. 9-10, dove troviamo due verbi all’indicativo presente: «ho sorpreso il tempo / che stinge di nascosto», a sancire l’unica certezza raggiungibile, quella della fine, che l’io lirico è in grado di presentire. Il verso in chiusura vira verso la sdrammatizzazione, con una nota di humour tutt’altro che desueta in Zeichen, la cui poesia è stata definita da Moravia «un’eco di Marziale in epoca contemporanea».

Così il poeta prende atto della vanità di vincoli e promesse, della sua incapacità di arrestare il flusso del sentimento amoroso, e risponde con il divertissement all’evidenza dell’ineluttabile.



*

Immagine di copertina: Williams Hugh William, An extensive view of the Acropolis and Athens, Greece, with the Herodeion Atticon below, 1822


25/10/2022

Ponte alla Luna

L’AMORE FUGACE
TRA EPIGRAMMA ANTICO
E NOVECENTO

di Francesca Innocenzi

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