YVES BONNEFOY
Poesie scelte
Teatro
I
Ti vedevo correre sulle terrazze,
Ti vedevo lottare contro il vento,
Ti sanguinava il freddo sulle labbra.
E t’ho vista spezzarti e gioire d’essere morta oh più bella
Della folgore, quando chiazza i vetri bianchi del tuo sangue.
[...]
Nell’insidia della soglia
Urta,
Urta per sempre.
Nell’insidia della soglia.
Contro la porta, sigillata,
Contro la frase, vuota.
Nel ferro, ridestando
Solo queste parole, il ferro.
Nel linguaggio, nero.
In colui che è qui
Immobile, vegliando
Sul tavolo carico
Di bagliori, di segni. E che tre volte
Viene chiamato, ma non si alza.
[...]
Due barche
[...]
Pace, sull’acqua illuminata. Si direbbe che una barca
Stia passando, greve di frutti, e un’onda
Di sufficienza, o d’immobilità,
Sollevi il nostro luogo e questa vita
Come una barca diversa appena, ancor legata.
Abbi fiducia e lasciati prendere, omero nudo,
Dall’onda, sempre più ampia, di un’infinita estate.
Dormi, è questa, l’estate, e sta per lacerarsi,
Perenne, la notte nostra. Si chinerà
Su di noi l’Egizia sorridente.
Pace, sul flutto che scorre. Il tempo scintilla.
Sembra ormai che la barca sia ferma.
Si ode soltanto buttarsi, sgretolarsi,
l’acqua sul fianco deserto, all’infinito.
Le nuvole
Due volte silenzioso il pomeriggio
In virtù dell’estate deserta e di una fiamma
Che si espande da questo vaso forse, e forse
Da ancora più in alto, nel cielo.
Così abbiamo dormito, non so quante
Estati nella luce; e non so ancora
In quali spazi i nostri occhi si aprano.
Io ascolto, niente vibra, niente ha fine.
Soltanto il desiderio nel formare l’immagine
Meditando si volge sull’asse suo semplice,
L’argilla d’un risveglio in sogno, intrisa d’ombra.
Eppure il sole va ronzando sul vetro
E, avvolta l’anima nelle èlitre rosse
Discende, ma in pace, sulla terra dei morti.
La parola rovo, dici
La parola rovo, dici? Mi ricordo
Di quelle barche arenate nei varecchi
Che i bambini trascinano nei mattini d’estate
Con grida di gioia nelle nere pozzanghere
Perché ve ne sono, vedi, in cui rimane la traccia
Di un fuoco che vi arse a prua del mondo
– E sul legno annerito, in cui il tempo depone
Il sale che sembra un segno ma si cancella,
Anche tu amerai l’acqua che brilla.
Del fuoco, che va in mare la fiamma è breve,
Ma quando si spegne contro l’onda,
Vi sono iridescenze nel fumo.
La parola rovo è simile a quel legno che affonda.
Amare questa luce ancora? Amare aprire
La mandorla dell’assenza nella parola?
La grande neve
Prima neve stamattina presto. L’ocra, il verde
Si rifugiano sotto gli alberi.
Seconda, verso mezzogiorno. Non rimangono
Del colore
Che gli aghi dei pini
Che cadono anch’essi talvolta più fitti della neve.
Poi, verso sera,
Il flagello della luce s’immobilizza.
Le ombre e i sogni hanno identico peso.
Un po’ di vento
Scrive con la punta del piede una parola fuori del mondo.
Il tutto, il niente
[...]
III
Ti sia la grande neve il tutto, il niente,
Bambino dai primi pasi incerti sull’erba,
Gli occhi ancor presi dell’origine,
Le mani aggrappate soltanto alla luce.
Ti siano questi rami che scintillano la parola
Che devi ascoltare ma senza capire
Il senso del loro profilo sul cielo,
Altrimenti daresti nome solo al prezzo di perdere.
Ti bastino i due valori, uno brillante,
Della collina nell’incavo degli alberi,
Ape della vita, quando si prosciugherà
Nel tuo sogno del mondo questo stesso mondo.
E che l’acqua che scorre nel prato
Ti mostri che la gioia può sopravvivere al sogno
Quando la brezza venuta non si sa da dove già disperde
I fiori del mandorlo, eppure l’altra neve.
La casa natale
[...]
II
Mi svegliai, era la casa natale.
Pioveva piano in ogni sala,
Andavo dall’una all’altra, guardando
L’acqua che scintillava sugli specchi
Ammonticchiati ovunque, certi frantumati o anche
Spinti tra dei mobili e i muri.
Era da quei riflessi che, a volte, un viso
Emergeva, ridente, d’una dolcezza
Maggiore e diversa da quel che è il mondo.
E toccavo, esitante, nell’immagine,
Le ciocche scarmigliate della dea,
Scoprivo sotto il velo dell’acqua
La sua fronte triste e distratta di fanciulla.
Stupore tra essere e non essere,
Mano che esita a toccare il vetro appannato,
Poi ascoltavo il riso allontanarsi
Nei corridoi della casa deserta.
Qui soltanto per sempre il bene del sogno,
La mano tesa che non attraversa
L’acqua rapida, dove il ricordo si cancella.
[...]
Il disordine
[...]
Ci lasciamo.
Dunque avremo da ricordarci,
Ma il ricordo è l’oblio,
Ti avrò dimenticata quando crederò di vedere il tuo volto.
Oh, per favore, dice lei,
Tenta di ricordarti di ciò che non mi distrugge.
Tenta di ricordarti
Di questo fiore che colgo.
Lui grida. Vorrei soffocare tra due colori,
Vorrei essere nel nero per gettartene addosso manciate,
Desidero ardentemente morire per te poiché so solo morire.
E lei:
Cosa bisognerebbe che fossi perché tu potessi amarmi senza morirne?
Lui non le risponde, piange soltanto.
Il vento rinfresca, lei si posa lo scialle sulle spalle.
[...]

Yves Bonnefoy (Tours, 24 giugno 1923 – Parigi, 1 luglio 2016) è stato un poeta, traduttore e critico d'arte francese. Compiuti studi di matematica e filosofia, frequenta fino al 1947 a Parigi il gruppo dei Surrealisti. Nel 1953 pubblica la sua prima opera, Du mouvement et de l’immobilité de Douve, seguita da Hier régnant désert (1958), Pierre écrite (1965), Dans le leurre du seuil (1975). Nel 1959 ottiene il Prix de la Nouvelle Vague per L’Improbable, saggio sulla creazione poetica. Nel 1969 fonda con G. Picon, A. du Bouchet e L.-R. des Forêts la rivista «L’Ephémère», consacrata alla poesia. Ha insegnato nelle università di Ginevra, Vincennes, Nizza e Parigi, e in alcune università degli Stati Uniti. Negli ultimi anni mostra una decisa predilezione per il racconto prosastico o poetico.
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Testi selezionati da L’opera poetica (trad. di D. Grange Fiori, F. Scotto, Mondadori, 2010)