VLADIMIR NABOKOV
Poesie scelte
Come ti amo
Così verde, così grigio,
tutto stemperato dalla pioggia,
e il profumo dei tigli tanto denso che non so tollerare – andiamo via!
Andiamo via e lasciamo questo parco
e la pioggia che ribolle sui sentieri
tra fiori grevi
che baciano la terra viscosa.
Andiamo via, andiamo via, prima che sia troppo tardi,
al più presto, sotto il mantello, a casa,
prima che ti scoprano,
mio folle, mio folle!
Resisto, taccio. Ma ogni anno,
sotto il garrire degli uccelli e lo stormire dei rami,
quel distacco sembra più offensivo,
l’offesa più stolta.
E temo sempre più tradirmi
con parole avventate e interrompere
il fluire d’un difficile e calmo discorso,
che da tempo ha impregnato la mia vita.
Sugli schiavi dalle guance rubizze
l’azzurro del cielo è tutto uno smalto
di gonfie nubi,
mosse
da spinte appena visibili.
È possibile che non vi sia rifugio,
né angolo scuro,
dove il buio si fonda
coi geroglifici dell’ala?
Così silenziosamente non muove
la falena appiattita sulla muffa del tronco.
Che tramonto! Sarà lo stesso domani
e a lungo, a lungo dureranno i giorni caldi
poiché tutto riposa, senza errore,
sulla quiete e le nuvole dei moscerini.
Sospesi a un raggio della sera,
si agitano senza fine –
come un giocattolo d’oro
nelle mani di un venditore muto.
Come ti amo! In quest’aria vespertina
esistono a volte
varchi per l’anima, barlumi
nella sottilissima trama del mondo.
I raggi attraversano i tronchi.
Come ti amo! I raggi
attraversano i tronchi, come una vampa
si adagiano sui tronchi. Taci.
Fermati sotto il ramo fiorito,
respira il tuo alito –
stringi gli occhi, renditi piccolo
e penetra di nascosto nell’eterno.
***
In un tramonto, accanto alla medesima panca,
come nei miei giovani anni,
in un tramonto, tu sai quale,
con una nuvola lucida e un maggiolino,
accanto alla panca di legno mezzo marcio,
in alto sul fiume rosato,
come allora in quei giorni lontani,
sorridi e storna il viso,
se alle anime morte da tempo
è dato talvolta tornare.
Poeti
Dalla stanza una candela passa nell’atrio
e si spegne. Il riverbero ondeggia negli occhi
finché la notte senza stelle
non ritrova i suoi profili nei rami azzurro-cupi.
È tempo di partire – ancora giovani,
con un taccuino di sogni non ancora sognati,
con un ultimo, appena visibile bagliore della Russia
sulle rime di fosforo degli ultimi versi.
Eppure noi abbiamo conosciuto l’ispirazione,
sembrava che la nostra sorte fosse vivere, e sorte dei libri crescere.
Ma le muse dell’esilio ci hanno stremato:
è tempo ormai di lasciare il mondo.
E non perché temiamo offendere
con la nostra libertà i benpensanti.
È solo giunto il tempo, e poi è meglio non vedere
tutto ciò ch’è nascosto agli occhi altrui:
non vedere la pena e la grazia del mondo,
la finestra lontana che ha colto un raggio di luce,
i lunatici mansueti in divisa da soldato,
il cielo alto, le nuvole attente;
la bellezza, il rimprovero; i bambini di pochi anni
mentre giocano a nascondersi intorno e dentro
l’orinatoio che ruota nel crepuscolo d’estate;
la bellezza, il rimprovero del nimbo della sera;
tutto ciò che avvinghia, ferisce, strazia;
i singhiozzi del manifesto sull’altra sponda,
i suoi fluidi smeraldi nella nebbia,
tutto ciò che non si può dire.
Adesso varchiamo la soglia del mondo
verso quella regione... dàlle il nome che vuoi:
deserto, morte, rinuncia alla parola,
o forse, soltanto: silenzio d’amore.
Silenzio di lontane carraie,
dove nella spuma dei fiori si perde il solco della ruota,
silenzio della mia terra – disperato amore –
silenziosi baleni, silenzio del grano.
***
Qualsiasi apparenza di tela guerresca rivesta
l’arciorpello della sovietica Russia,
qualsiasi pietà ricolmi l’anima –
non mi inchinerò, non mi rassegnerò
a tutta l’infamia, crudeltà e noia
di una muta schiavitù... No, oh no!
Sono ancor vivo nello spirito, ancora non sono sazio di distacco –
dispensatemi – sono ancora un poeta!
***
Era un giorno come un altro. La memoria era assopita. Si prolungava
una fredda e tediosa primavera.
D’improvviso un’ombra si mosse sul fondo
e dal fondo si alzò con un singhiozzo.
Perché piangere? Non so consolare –
ma come sussulta, come rabbrividisce,
con che ardore si avvinghia al collo,
in quelle orribili tenebre, pregando di essere presa tra le braccia.
***
Che delitto ho commesso?
Sono forse un corruttore, un malvagio,
io che faccio sognare il mondo intero
con la mia povera ragazzina?
Oh lo so: gli uomini mi temono
e bruciano i miei pari per stregoneria,
e muoiono per la mia arte
come per un veleno in un cavo smeraldo.
Ma quanto è divertente che alla fine di ogni paragrafo,
a dispetto del correttore e del secolo,
l’ombra di una fronda russa oscilli
sul marmo della mia mano!
Restauro
Pensare che ogni sciocco può lacerare
per caso la trama del dove e del quando.
O finestra sull’oscurità! Pensare
che ogni cervello è sull’orlo di una felicità
senza nome che nessuno può sopportare,
a meno che non vi sia una gran sorpresa...
come quando apprendi a lievitare
e, provando appena, capisci
– da solo, in una stanza illuminata – che il peso
è solo la tua ombra, e ti sollevi.
La mia figlioletta si desta tutta in lacrime:
immagina che il suo letto sia trascinato
in una penombra che pare
l’abisso di tutti i suoi terrori
ma che, in realtà, è l’alba.
Conosco un poeta che può ritagliare
un Guglielmo Tell o Golden Pip
in una buccia ininterrotta
rivelando miracolosamente,
ruotante sul polpastrello,
una palla di neve. Così spoglierei
rovesciando, sforzando, scandagliando
tutta la materia, tutto quanto vedi,
l’orizzonte e il suo albero più triste,
l’intero inesplicabile globo,
per trovare il vero, l’ardente cuore
come i dottori degli antichi quadri fanno
quando, cancellando una porta distante
o una tenda fuligginosa, restaurano
il gioiello d’una azzurrognola veduta.
Il pioppo
Davanti a questa casa cresce un pioppo
molto bravo in rabdomanzia, io credo,
ma come sospira! E ogni notte
un ragazzo in nero, una ragazza in bianco
al di là del chiarore del mio letto
appaiono: e non una parola viene detta.
Su una seggiola con abiti sopra, e l’altra no,
seggono, uno qui, l’altra lì.
Non penso a fare scene:
leggo un lustro rotocalco.
Lui si tiene sull’esile ginocchio
un pioppo nanerottolo dentro un vaso.
E lei... lei pare che tenga tra le mani
uno specchietto opaco con l’orlo d’avorio
che specchia un prato, lei e me
sotto l’albero campione,
innanzi a un portico, visto in luglio
ultimamente, il novecentodiciasette.
Questa è la fodera argentea
di antropomorfiche bugie: il sospiro
del Populus che spilla infine
non acqua ma il passato dell’autore.
E nota: nulla è stato detto mai.
Leggo un rotocalco a letto
o una crestomazia popolare di poesia; e nota:
questa è la mia camicia, quella la giacca.
Ma m’è stato detto che più fragili visionari
s’alzano per riordinare un gregge.
Vladimir Vladimirovič Nabokov (1899-1977) nacque a San Pietroburgo da una nobile famiglia russa costretta a emigrare a seguito della Rivoluzione d’ottobre. Studiò al Trinity College di Cambridge (1919-22), quindi si stabilì a Berlino (1925) e poi a Parigi (1936-40). Negli USA dal 1940, insegnò russo al Wellesley College e in seguito alla Cornell University. Negli ultimi anni della sua vita visse a Montreux, in Svizzera, dove all’attività letteraria alternò quella delle ricerche di entomologo. Le opere che risalgono al periodo europeo, scritte in russo e sotto lo pseudonimo di Vladimir Sirin, includono volumi di poesie (Strada di montagna, 1922; Grappolo, 1923) e romanzi, poi tradotti dall’autore in inglese (Maria, 1926; Re, regina, fante, 1928; La difesa, 1930; Disperazione, 1938; Il dono, 1937-38; Invito a una decapitazione, 1938). Della narrativa in inglese vanno ricordati: La vera vita do Sebastian Knight (1941), I bastardi (1947) e il celeberrimo Lolita (19551962), che rappresentò, nello smarrimento e nell’euforia, la scoperta dell’America, come società di massa, da parte del vecchio mondo europeo e che destò grande clamore. All’altro importante romanzo Fuoco pallido (1962) fanno corona opere quali Pnin (1957), Ada o ardore (1969), Cose trasparenti (1972), Guarda gli arlecchini! (1974); l’impegnativa traduzione dell’Evgenij Onegin di Puškin (1964); le raccolte di racconti Dozzina di Nabokov (1958) e Quartetto di Nabokiv (1966); il libro di memorie Parla, ricordo (1951); e lo stipato, provocatorio zibaldone Opinioni forti (1976).
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Testi selezionati da Poesie (trad. di A. Pescetto, E. Siciliano, Il Saggiatore, 1962)