VITTORIO BODINI
Poesie scelte
***
Tu non conosci il Sud, le case di calce
da cui uscivamo al sole come numeri
dalla faccia d’un dado.
***
Qui non vorrei morire dove vivere
mi tocca, mio paese,
così sgradito da doverti amare;
lento piano dove la luce pare
di carne cruda
e il nespolo va e viene fra noi e l’inverno.
Pigro
come una mezzaluna nel sole di maggio,
la tazza di caffè, le parole perdute,
vivo ormai nelle cose che i miei occhi guardano:
divento ulivo e ruota d’un lento carro,
siepe di fichi d’India, terra amara
dove cresce il tabacco.
Ma tu, mortale e torbida, così mia,
così sola,
dici che non è vero, che non è tutto.
Triste invidia di vivere,
in tutta questa pianura
non c’è un ramo su cui tu voglia posarti.
Olvido
Tutti gli orologi della tua casa
sono fiori irrequieti,
o battono con tempie di limoni
nelle fruttiere, al buio delle sale.
Ciò che sfere inuguali
segnano in essi è il tempo
dei tuoi fuochi divisi: odio e speranza,
timore e gratitudine, e i tuoi anni
fra cui rapido passa il tuo bel viso
come luna nei vuoti delle nubi.
Io non so questa mano che mi dai
a che giorno appartenga
o a quale notte;
né tu per dove io ti raggiunsi,
in quest’arca ribelle che sorvolano
ore a morte colpite dai proprî inganni.
Ma se dal fosco secolo dei tuoi capelli
un garofano cade com’astro in fiamme,
tutta s’aliena in fiamme e di quel fiore
la memoria confessa di voler vivere.
***
Ninetta, la poesia
(d’estate) è un pappagallo
dalle penne oro e verdi e una mania
di contraddire.
Così mentre tu sogni
d’arrivare in Versilia
in regola, coi pantaloni gialli,
io penso a un viaggio di sei anni fa.
Ballava la Olivetti,
la bombola del gas
sopra il sedile posteriore, il trucco
troppo forte ti sbilanciava il viso –
poi l’arrivo a un paese
dove moriva il giorno
come un gran gallo suicida
sulle terrazze.
***
Cade a pezzi a quest’ora sulle terre del Sud
un tramonto da bestia macellata.
L’aria è piena di sangue,
e gli ulivi, e le foglie del tabacco,
e ancora non s’accende un lume.
Un bisbigliare fitto, di mille voci,
s’ode lontano dai vicini cortili:
tutto il paese vuole far sapere
che vive ancora
nell’ombra in cui rientra decapitato
un carrettiere dalle cave. Il buio,
com’è lungo nel Sud! Tardi s’accendono
le luci delle case e dei fanali.
Le bambine negli orti
ad ogni grido aggiungono una foglia
alla luna e al basilico.
Addio e non leggete
Addio e non leggete quel giornale
che loda la guardia campestre
se spara sui ladri di chiocciole
nel bosco incolto o dà la caccia
a bimbe con le labbra viola
per qualche oliva selvatica nella macchia.
Non può volere questo il mondo
neppure qui, in questa
periferia infinita. E se non è la sola
nostra tristezza, tutto fa che sia
questo paese come non dovrebbe,
da sé alieno e vi paia fuori posto
ogni cosa, la vanga abbandonata,
la nuvola e l’ulivo sui vigneti
come una bruna vela, eppure il verde,
il frutto pieno,
portano lo sforzo sepolto
che l’inverno era qui un deserto
di ceppi neri fuori della terra
rossa gonfia di pioggia come corna
di mandrie immense affondate. Solo noi
viviamo come dati insolubili che non maturano.
Siamo nati dicendo «a priori» nel fondo
delle case, senza neanche confessare
la sorpresa in un pianto nuovo,
e ci è destino rimpiangere
fin le cose che abbiamo
qui, vicino a noi, come fossero
miglia e miglia remote.
Questo dovevo dirvi. È in una sera
dipinta sulla seta che vi lascio,
negli odori di umido e di carta bruciata
che io parto svanendo per far ritorno fra voi
duro e sofistico come siamo sempre stati.
***
Son maturato tardi. È la smania
di vivere troppo presto che m’ha tradito.
Non dar tempo al tempo. Vedere
la bellezza soffrendo
di non poterla usare.
Ho imparato tardi a accordare
al mormorio d’un ruscello i moti del cuore,
a ammettere la natura fra i miei pensieri
come un ospite da lasciare a suo agio.
Quanta rabbia di esistere
Quanta rabbia di esistere diventa amore!
E qui bisognerebbe addurre casi, narrare
e anche narrarsi, scegliersi negli specchi
di foglie, d’acqua, di neve. Io una volta volevo
sapere come può ridere nella luna
la testa d’un lutrino dalla spina scarnita
– cosa avrebbe pensato di quella vista la luna –,
e questo desiderio era amore. Folletti che avevano
un buffo berrettuccio di capelli
attorcevano in trecce le code delle cavalle.
In una piccola via dal nome di un’oscura battaglia,
lì essa pensò che l’avrei uccisa.
Ora lontana essa ride di tutto ciò,
mentre ubbriaca guarda nel fondo d’un bicchiere o del mare.
Ma la distanza può allungarsi a piacere,
sa fare d’un rimorso una vaga ipotesi.
Oh, vi sarete fermati anche voi qualche volta di notte
sotto un balcone o un albero,
udendo il grillo italico cantare,
e a quel brusco interrompersi dei vostri passi
schiudere false rughe, spingere come lontano
da sé il canto, o tacere
e subito riprendere da un altro punto illusorio.
***
Sulle pianure del Sud non passa un sogno.
Sostantivi e le capre senza musica,
con un segno di croce sulla schiena,
o un cerchio,
quivi accampati aspettano un’altra vita.
Tutto è evidenza e quiete, e si vedrebbe
anche un pensiero, un verbo,
con il bigio sgomento d’una talpa
correre tra due pietre.
La pianura mirare a perdita d’occhi,
senza case, senz’alberi, senza una lettera:
livello di un’assenza a cui sole si sporgono
capre o spettri di capre morte da secoli,
che brucano le amare giade dell’insonnia,
l’acciaio senza luce d’antiche spade,
quando popoli amari si scontravano
e di sangue tingevano i cieli della preistoria.
Così, se qualche giorno dal sottosuolo
un riso magro scatenato nel vento
di scirocco si stira,
ciò che all’imperturbato cielo e ai corvi
scopre la vanga
sono le dentature di cavalli
uccisi che si rammentano
che dolce festa faceva
quand’era vivo il sangue sulla pianura.
Tramonto a San Valentino
L’uomo che s’affeziona al proprio deserto
guarda la proditoria brace
che scolora fra i platani
e sa che il suo pensiero un tempo amante di sfide
non sa andar oltre e quasi di quel limite
s’accontenta.
Lo sfiora appena il sospetto
d’essere prediletto
da quel rosso nulla.
Vittorio Bodini nacque da genitori salentini nel 1914 a Bari, ma ancora in fasce venne portato a Lecce. Nel 1937 s’iscrisse alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Firenze, dove si laureò nel 1940. Qui diventò amico tra gli altri di Mario Luzi, Alessandro Parronchi e Piero Bigongiari. Nel 1946 si trasferì in Spagna come lettore d’italiano e poi antiquario. Nel 1950 rientrò a Lecce e dopo due anni ebbe la cattedra di Letteratura spagnola presso l’Università di Bari. Esordì come poeta nel 1952 con La luna dei Borboni. Nel 1954 fondò «L’esperienza poetica», rivista che durò due anni. Studioso del barocco e di Luis de Góngora, diede vita a una monumentale traduzione del Teatro di Federico García Lorca (Einaudi, 1952), a quella importantissima del Don Chisciotte (Einaudi, 1957), all’antologia de I poeti surrealisti spagnoli (Einaudi, 1964), cui seguirono, tanto per citare le più significative, le traduzioni di Quevedo (Sonetti amorosi e morali e Il pitocco, Einaudi, rispettivamente 1965 e 1967), Rafael Alberti (Degli angeli, Einaudi, 1964, e Il poeta nella strada. Poesia civile 1931-1961, Mondadori, 1969), ecc. Continuò ad avere rapporti stabili con il Salento, anche se negli ultimi dieci anni si trasferì a Roma, dove morì nel 1970.
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