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PHILIPPE JACCOTTET
Poesie scelte

Portovenere


Di nuovo cupo il mare. Tu capisci,

è l’ultima notte. Ma chi chiamo? A nessuno

parlo, all’infuori dell’eco, a nessuno.

Dove strapiomba la roccia il mare è nero, e rimbomba

in una campana di pioggia. Un pipistrello

urta come stupito sbarre d’aria,

e tutti questi giorni sono persi, lacerati

dalle sue ali nere, a questa gloria

d’acque fedeli resto indifferente,

se ancora non parlo né a te né a niente. Svaniscano

questi «bei giorni»! Parto, invecchio, che importa,

il mare dietro a chi va sbatte la porta.



Interno


Cerco da tempo di vivere qui,

in questa stanza che fingo d’amare,

tavolo, oggetti quieti, la finestra

che in fondo ad ogni notte apre altri verdi,

e il cuore del merlo che batte nell’edera scura,

punti di luce sulle macchie d’ombra.


Anch’io cerco di dirmi: «L’aria è dolce,

sono a casa, la giornata sarà buona».

C’è solo, in fondo al letto, questo ragno

(si sa, è il giardino), che non ho abbastanza

ucciso, sembra stia tessendo ancora

la trappola al mio fragile fantasma...



***


Di notte, nella città dove vivo in immagine,

la nebbia trasforma le strade in passaggi e voragini,

in cui vanno i fantasmi, come portando altrove

quel lieve vapore che sale dal fondo del cuore.

Eppure insisto, per quanto sia incapace il solitario,

e osservo le figure della luce. E se poi fosse

appunto per la pietra che vacilla, o perché il vento

di fronte ai bar impazza come un cane, o perché squassa

foglie, finestre malchiuse, che finalmente

stavo per incrociarvi, distrutta la forza,

estrema fragilità sempre sfuggente: e se poi avessi

acciuffato il vostro mantello di cuoio... Ora sapendo

che i muri più alti non sono che leghe di polvere,

che chiasso e arditi specchi dei caffè improvvisamente

s’incrinano ai primi suoni del mattino, e che salendo

ai belvedere di periferia la città appare

povero mucchio di braci fumanti,

più non accoglierò queste figure terrificanti,

e ancora camminerò, benché sia inverno, e gli ultimi

ricordi di ieri il fiume abbia travolto...

Vivrò meno tremante in queste fortezze di sabbia,

poiché desidero solo una cosa che sfugge, vaga,

questa parola detta in un soffio alla bocca in attesa,

sull’astro degli occhi brucianti questo passaggio di nebbia.



L’ignorante


Più invecchio e più io cresco in ignoranza,

meno possiedo e regno più ho vissuto.

Quello che ho è uno spazio volta a volta

innevato o lucente, mai abitato. E il donatore

dov’è, la guida od il guardiano? Io rimango

nella mia stanza, e taccio (entra il silenzio

come un servo che venga a riordinare),

e attendo che a una a una le menzogne

scompaiano: cosa resta? cosa rimane a questo moribondo

che gli impedisce ancora di morire? Quale forza

lo fa ancora parlare tra i suoi muri?

Potrei saperlo, io, l’ignaro e l’inquieto? Ma la sento

parlare veramente, e ciò che dice

penetra con il giorno, anche se è vago:


«Come il fuoco, l’amore splende solo

sulla mancanza, e sopra la beltà dei boschi in cenere...»



Il lavoro del poeta


Compito dello sguardo che s’offusca

non è sognare o piangere, è vegliare

come un pastore il gregge, e richiamare

ciò che rischia di perdersi nel sonno.


                              *


Così, sul muro acceso dall’estate

(ma non sarà piuttosto dal ricordo)

vi guardo dentro la pace del giorno,

voi che andate lontano, che fuggite,

vi chiamo, luminosi dentro l’erba

più scura, come un tempo nel giardino, voci o luci

(chi sa) che legano i defunti con l’infanzia...

(È morta, la signora sotto il bosso,

spento il suo lume, al vento il suo corredo?

O un giorno tornerà da sotto terra

e potrò dirle, io, andandole incontro: «Che ne è stato

di tutto questo tempo, in cui tacevano

il riso e i vostri passi per la via? E non si poteva

che andarsene così, senza avvisare?

O signora! tornate ora fra noi...»)


Nell’ombra ed ora d’oggi sta in silenzio,

nascosta, l’ombra di ieri. E questo è il mondo.

Non lo vediamo a lungo, quel che basta

a trattenerne quello che scintilla, e a poco a poco

si spegne, a chiamare ancora e poi ancora, e a tremare

di non vedere più. Così si sforza

il misero, come chi, inginocchiato, contro vento,

tenta di radunare un magro fuoco...



***


Adesso so che non possiedo nulla,

neppure l’oro delle foglie fradicie,

né questi giorni che a gran colpi d’ala

vanno da ieri a domani, rimpatriano.


Lei fu con loro, pallida emigrante,

tenue beltà coi suoi segreti vani,

brumosa. E ora condotta certamente

via, tra i boschi piovosi. Come prima


eccomi in faccia a un irreale inverno,

ricanta il ciuffolotto, unica voce

che insiste, come l’edera. Ma il senso


chi lo può dire? E la salute scema,

simile oltre la nebbia al fuoco breve

che un vento glaciale smorza... Ed è già tardi.



Il barbagianni


La notte è una grande città addormentata

battuta dal vento... È venuto fin qui da lontano,

all’asilo del letto. È mezzanotte di giugno.

Tu dormi, mi hanno portato a questi bordi infiniti,

freme al vento il nocciolo. Ecco il richiamo

che viene e si ritrae, sembra davvero

una luce in fuga nei boschi, o quel che dicono

il vorticare d’ombre giù negli inferi.

(Questa voce nella notte estiva, quante cose

potrei dirne, e dei tuoi occhi...) Ma è soltanto

il grido del barbagianni che ci invita

nel folto di questi boschi suburbani.

E subito il nostro odore

è quello del marciume al far dell’alba,

subito sbuca l’osso

sotto la nostra pelle così calda,

e intanto le stelle svaniscono in fondo alle strade.

Philippe Jaccottet è nato nel 1925 a Moudon, nella Svizzera francese, ed è morto a Grignan nel 2021. Dal 1953 ha vissuto in Francia. Ha tradotto Hölderlin, Musil, Rilke (cui ha dedicato una monografia critica) e poeti italiani, tra cui Ungaretti, Montale, Bertolucci, Sereni. Nel 1953 ha pubblicato Il barbagianni e altre poesie, cui sono seguite Poesie (1971), con prefazione di J. Starobinski, Alla luce d’inverno (1994), E tuttavia (2001). La sua attività di prosatore e saggista trova l’espressione più alta nei taccuini di Appunti per una semina (1984), seguiti da La seconda semina (1996) e dal saggio La parola Russia (2002).



*

Testi selezionati da Il barbagianni. L’ignorante (trad. di F. Pusterla, Einaudi, 1992)

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