PATRIZIA CAVALLI
Poesie scelte
***
Per simulare il bruciore del cuore, l’umiliazione
dei visceri, per fuggire maledetta
e maledicendo, per serbare castità
e per piangerla, per escludere la mia bocca
dal sapore pericoloso di altre bocche
e spingerla insaziata a saziarsi dei veleni del cibo
nell’apoteosi delle cene quando il ventre
già gonfio continua a gonfiarsi;
per toccare solitudini irraggiungibili e lì
ai piedi di un letto di una sedia
o di una scala recitare l’addio
per poterti escludere dalla mia fantasia
e ricoprirti di una nuvolaglia qualunque
perché la tua luce non stingesse il mio sentiero,
non scompigliasse il mio cerchio oltre il quale
ti rimando, tu stella involontaria,
passaggio inaspettato che mi ricordi la morte.
Per tutto questo io ti ho chiesto un bacio
e tu, complice gentile e innocente, non me lo hai dato.
***
Che orrore immaginare due corpi
che fanno l’amore presi da necessità
che qualche cosa avvenga
si compia e poi sfilacciati
da una soddisfazione si ricompongono
nella loro apparenza.
Preferisco quel metro di distanza
dove vedevo l’eterno mare scuro
calmo silenzioso.
***
Maledetto sia lui, gozzoviglia di nuvole,
cielo affogato! Era proprio lassù
che doveva compiersi la mia somiglianza,
lassù così in alto, nel mutamento impalpabile
doveva avvenire la processione dei mali.
I miei occhi guardano il cielo ogni momento,
persino di notte, per vedere la minaccia
visibile, densissima e cupa. Ma spesso vedono
azzurri così vasti da far sentire la vergogna
del sospetto. Eppure so dal battito del mio cuore
cosa si nasconde dietro lo splendore, come
in un attimo la luce verrà scansata
dal bianco opaco, dalla tronfia corpulenza
di una nuvola e come di nuovo
verrà evocata la palude.
***
Addosso al viso mi cadono le notti
e anche i giorni mi cadono sul viso.
Io li vedo come si accavallano
formando geografie disordinate:
il loro peso non è sempre uguale,
a volte cadono dall’alto e fanno buche,
altre volte si appoggiano soltanto
lasciando un ricordo un po’ in penombra.
Geometra perito io li misuro
li conto li divido
in anni e stagioni, in mesi e settimane.
Ma veramente aspetto
in segretezza di distrarmi
nella confusione perdere i calcoli,
uscire dalla prigione
ricevere una grazia di una nuova faccia.
***
Questa volta non lascerò che l’azzurro intravisto
e visto da dietro la finestra, dal margine di un tetto
all’altro, nell’unico grandioso spiegamento
della ripetizione, trasportando lo sguardo oltre
ogni limite oltre la visione delle distanze,
tentazione e ricatto di leggerezza e movimento, questa volta
non lascerò che mi corrompa nella promessa della luce.
Non lascerò che il volo degli odori, l’aria
sbattuta dai suoni e dalle ali, i rapidi baleni
di un piccione che si rispecchia nell’ombra
della grondaia, che ne ricama il bordo
passeggiando, che si getta nel vuoto per poi
risalire, mi trascinino nelle strade
per colpire il mio corpo, mutilo d’ogni geografia,
smemorato d’ogni inclinazione, per colpire
in me la piaga addormentata dello stupore.
***
Tempo di pace questo nostro disgraziatissimo
che non consente al cuore la barbarie
né guerre né battaglie, ma lagrime sbagliate
che ingombrano il mattino. Noi qui ridotti
al batticuore adulto del comprendere, senza
vera speranza di venire uccisi. Colpevoli
persino della nostra morte, che sia il corpo
a volerlo o sia il pensiero, lento o violento
è suicidio sempre. E in solitudine
non c’è morte innocente.
***
Qualcosa che all’oggetto non s’apprende
un secchio vuoto che non mi raccoglie.
Tenevo i mesi silenziosi in una trama
che doveva risplendere di voce.
Provavo a dire e mi si sfilacciava.
Non è né rete né mantello, è solo schermo,
io non catturo niente e non mi copre
ma separa un silenzio dal silenzio.
Quell’altro suono labirintico e interiore
esercitato in solitudine per strada
e nei risvegli, non risultava,
non mi si mostrava.
***
Troppa memoria. Ma vaga, senza storia.
Colpa dell’aria. Tiepida, sgranata.
Non più contratto e denso per il freddo
il corpo esterno si apre e si distende
a maglie larghe si lascia penetrare
e intenerito cede particelle
all’aria dolce: lasca superficie
tutta intrisa di mondo, al mondo arresa.
E dal suo centro che è nell’ipocondrio
languidamente sale un entusiasmo
che porta via con sé tutto il mio caldo.
E mentre con talento vagabondo
nell’aria si confonde, io, non presente,
divento immenso campo di memoria
dove mi perdo quanto più avanzo
ma senza volontà, perché sto ferma.
Così ferma che quasi mi scompaio
non leggera nel vuoto ma pesante
per troppo peso di memoria. E ascolto.
Sento quell’entusiasmo che mi chiama
e che pretende il mio trasferimento
verso quel posto dove sta il mio caldo.
Sì, perché è lì che io voglio sempre andare
dove c’è una figura fissa al centro
che assorbe tutto il vuoto che sta intorno,
e lì chiusa e stordita rimanere
senza memoria, senza sentimento.
***
Amore non è vero che svolazza,
sta fermo e dorme invisibile nascosto
in caldo ripostiglio, il nostro corpo.
Ma quale sia precisamente il posto
finché sta fermo nessuno può saperlo,
quello che sceglie non è per tutti uguale.
Io certo non lo sveglio, però smania nel sonno
e so che adesso si è messo di traverso
proprio in quel punto dove mi fa male,
dietro la quarta vertebra dorsale.
***
E me ne devo andare via così?
Non che mi aspetti il disegno compiuto
ciò che si vede alla fine del ricamo.
Ma quel che ho visto si è tutto cancellato.
E quasi non avevo cominciato.

Patrizia Cavalli nasce a Todi nel 1947 e muore a Roma nel 2022. Durante gli studi filosofici conosce Elsa Morante che scopre in lei la vocazione per la poesia. Alla grande scrittrice romana è dedicata la sua silloge d’esordio, Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974), cui segue Il cielo (1981). Il suo timbro appare subito personalissimo, insieme classico e quotidiano: la grazia arguta della lingua e la malinconia del tempo che trascorre consentono alla tematica amorosa d’innescare fulminanti interrogativi sul proprio sé. Nel 1992 unisce nel volume Poesie (1974-1992) le prime due opere e una terza intitolata L’io singolare proprio mio. Alla vena epigrammatica comincia ad affiancarsi «un’attitudine intellettuale prosastica, o meglio un gusto del recitativo, ironicamente argomentante in tutta serietà» (Berardinelli); ciò si evidenzia ancor più in Sempre aperto teatro (1999), che si aggiudica il Premio Viareggio, e nel poemetto La guardiana (2005), poi confluito in Pigre divinità e pigra sorte (2006). Ha scritto inoltre Flighty matters (2012), Datura (2013) e la raccolta di prose Con passi giapponesi (2019 – finalista al Premio Campiello). Vita meravigliosa (2020) è la sua ultima opera poetica.
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Testi selezionati da Poesie (1974-1992) (Einaudi, 1992), Pigre divinità e pigra sorte (Einaudi, 2006) e Vita meravigliosa (Einaudi, 2020)