NINA CASSIAN
Poesie scelte
Dedica
E se la carne è avvilita
– schiacciata in realtà, fatta a pezzi –
resta lo spirito, l’alcol verde
del frutto che fui un tempo...
Leggi il mio libro e inebriati
dell’aroma della mia carne.
Autoritratto
Mi è toccato questo volto strano, triangolare,
questo pan di zucchero o questa
polena degna di navi corsare
e capelli lunghi, lunari, sulla cresta.
Mi è toccato portare in giro un aggressivo contorno
errabondo da mane a sera che spesso
squarcia la retina di chi mi sta dintorno
quando proietto alla parete il mio incongruo essere.
A chi appartengo? Mi rinnegano antenati e genitori.
Temporaneamente alleate mi rinnegano le razze,
i bianchi, i gialli, i rossi e i neri.
Neppure la specie mi riconosce tutta d’un pezzo.
E solo quando grido perché sbatto
e solo quando il freddo si promana
e solo quando il tempo di peccato m’imbratta
– mi chiamano bella. Mi riconoscono umana.
Volevo restare a settembre
Volevo restare a settembre
sulla spiaggia pallida e deserta,
volevo caricarmi di cenere
delle mie volubili gru
e che il vento grave dormisse
come acqua nelle reti fra le chiome;
volevo una notte accendermi
una sigaretta più bianca della luna
e intorno a me – nessuno, solo il mare
con la sua forza grave e latente;
volevo restare a settembre,
presente al trascorrere del tempo,
una mano fra gli alberi e l’altra
nella sabbia canuta – e scivolare
nell’autunno insieme all’estate...
Ma a me sono stati prescritti,
è chiaro, più penosi abbandoni.
Mi è toccato strapparmi a paesaggi
a cuore impreparato
e mi è toccato lasciare l’amore
quando ancora amare vorrei...
La tentazione
Più vivo di così non sarai mai, te lo prometto.
Per la prima volta vedrai i pori schiudersi
come musi di pesce e potrai ascoltare
il mormorio del sangue nelle gallerie
e sentire la luce scivolarti sulle cornee
come lo strascico di un abito; per la prima volta
avvertirai la gravità pungerti
come una spina nel calcagno
e per l’imperativo delle ali avrai male alle scapole.
Ti prometto di renderti talmente vivo che
la polvere ti assorderà cadendo sopra i mobili,
che le sopracciglia diventeranno due ferite fresche
e ti parrà che i tuoi ricordi inizino
con la creazione del mondo.
Tirata del penultimo atto
Vi lascio, vi lascio, non vi toccherò mai più.
Io non ho più nulla da dimostrare.
Non vedo dunque il motivo di rinviare ancora
questo naufragar di cellule
chiamate mani, occhi o bocca
nell’argilla paziente, nell’argilla che
non mi aspetta né mi reclama,
stanca ormai della certezza
che le appartengo, nell’orizzonte nullo.
Ho detto quasi tutto quello che sapevo,
persino la menzogna ho pronunciato con devozione
poiché l’ho vista esister, prender corpo,
farsi viva come una foglia
o una lepre – e io non sono riuscita
a ignorare, mai, creatura alcuna.
Vi lascio – anche perché sono estenuata
nel vedere come ogni secolo si rovescia
in quello precedente, come se
il latte succhiato dal neonato ritornasse
nel seno della madre o, ancora peggio,
come se la fronte di un filosofo
si assottigliasse tesa verso estinte,
irsute e rampicanti specie.
Qualcosa ho imparato, lontano tuttavia
dagli studi e da quella sacra minuziosità
degli affidabili in-folio – ma piuttosto
dal freddo e dal calore, dalla nascita, dalla morte,
da tutto quello che – ahimè! – non si ripete
e dunque non può essere usato
come esperienza. Sono rimasta altrettanto
vulnerabile, ho conosciuto da vicino
mille oggetti e stati d’animo
ma non sono riuscita a chiamarli per nome
senza che si allontanassero
mutando forma oltre ogni limite,
gettandomi nello sconcerto come in un lago di sangue.
Vi lascio, non vi toccherò mai più. Mi avete detto
così tante volte che non vi vado a genio
anche se ho disegnato con attenzione il mio ritratto
sempre seguendo la vostra traccia. Però,
a quanto pare, non riesco a imitar nulla,
non ho né l’abilità né il dono
di somigliare a voi, e neanche a me stessa.
Sorrido – e tutto viene travisato
per un ghigno! Rido – e la gente si gira
rimproverandomi per l’indecenza.
Quando piango – l’occasione non è felice, perché ecco,
proprio oggi è festa in città.
Faccio una statua – e la folla grida:
«Si sta facendo un idolo!». E quando languo
per una grave malattia – viene considerata
un’ipocrisia del mio corpo intristito
per scatenare una strisciante epidemia...
Vi lascio, vi lascio, vi lascio...
L’aldilà
Ne scrivo apertamente
anche se mi terrorizza.
Nomino un gabbiano
e l’ombra sua mi copre
e l’ombra del suo becco mi trapana il cranio
e un’ombra di sangue mi riga la guancia.
Dico «fame» o «addio»
e «fame» affonda gli occhi dentro l’orbita,
«fame» mi sdilinquisce il petto e il grembo,
arriva «addio» e lacera l’amore,
«addio» mi apre a forza le braccia
e fa cadere tutto in terra.
Mettendole per iscritto volevo liberarle e invece quelle
non sanno fare altro che azzannare e divorare;
solo ammazzando si sentono libere.
Non credono nell’aldilà del Verso.
Ginnastica mattutina
Mi sveglio e dico: sono perduta.
È il mio primo pensiero all’alba.
Comincio bene la giornata
con questo pensiero assassino.
Signore, abbi pietà di me
– è il secondo, e poi
scendo dal letto
e vivo come se
nulla mi fosse accaduto.
Interdizione
Cosa cerchi tu qui in vesti diafane
mentre accosti una coppa di parole
alle labbra indifferenti del tempo?
Chi ti ha fatto credere
che gli stagni anelano alla luna
e che un uccello danza al centro della terra?
Perché non accetti il rifiuto,
perché non leghi le gambe
strette strette?
Quel che accade intorno a te
non è più affar tuo.
Farsa
Lasciatemi disporre le mie ossa
diverse da com’erano finora,
le mie ossa, quei fastidiosi ostacoli
che sbarrano la strada della carne
deviandola, obbligandola alla forma femminile,
a una pera, e le mani a una stella di mare.
Lasciate che le mie ossa atee
provino geometrie singolari.
Ad esempio: lo schema della prima nave al mondo
o lo scheletro trasparente del fiore di giglio
o l’albero genealogico dei frutti postumi
che si conclude nel discendente vergine.
Lasciate che le mie ossa cadano
in ginocchio, quando fingo di pregare,
disorientando almeno una volta nella vita
il mite Paleontologo.
C’è modo e modo di sparire
Ho creduto
di essere facilmente riconoscibile
dal mio leggiadro anulare
(ora tutto ingobbito)
e dal cane piumato
che mi accompagna.
Ho creduto di poter essere
una nappina appesa al Suo abat-jour,
Donna Decrepitudine.
La sabbia rosicchia la mia sagoma.
Scompaio,
divengo con lei una cosa sola.
***
Pur se verrò sepolta
in una terra aliena:
risorgerò un giorno
nella lingua romena.
Nina Cassian, pseudonimo di Renée Annie Cassian-Mătăsaru, nasce il 27 novembre 1924 a Galaṭi, in Romania. Oltre alla poesia, si dedica alla recitazione, alla pittura e al pianoforte. Nel 1945 pubblica i primi versi sul giornale «România liberă», seguiti a due anni di distanza dal volume La scară 1/1, opera stilisticamente troppo vicina ai toni avanguardisti e troppo esuberante, definita decadente dalla critica ufficiale comunista. Sceglie così di adeguarsi allo stile encomiastico richiesto dal regime. Solo nel 1957 abbandonerà finalmente le appartenenze ideologiche. Nel 1985, anno in cui fu invitata a tenere un corso di scrittura creativa all’Università di New York, decide di compiere un gesto quasi rivoluzionario: chiedere asilo politico e trasferirsi negli Stati Uniti. Finisce quindi nel mirino della polizia che aveva scoperto alcuni suoi testi “poco corretti” nei confronti della politica romena. Non tornerà mai più in patria. Muore a New York il 15 aprile 2014, all’età di 89 anni, a causa di un attacco cardiaco.
*
Testi selezionati da C’è modo e modo di sparire. Poesie 1945-2007 (trad. di A.N. Bernacchia, O. Fatica, Adelphi, 2013)