INGEBORG BACHMANN
Poesie scelte
Quel ch’è vero
Quel ch’è vero non sparge sabbia nei tuoi occhi,
per quel ch’è vero morte e sonno con te si scuseranno,
come incarnato, saggio per ogni dolore,
quel ch’è vero smuove la pietra dal tuo sepolcro.
Quel ch’è vero, caduto ormai, slavato
seme o già foglia, nel letto malsano della lingua,
un anno e un anno ancora ed ogni anno –
quel ch’è vero non crea tempo, lo salva.
Quel ch’è vero discrimina la terra,
pettinando sogno serto e coltura,
alza la cresta e colmo di frutti strappati
ti folgora, prosciugando ogni cosa.
Quel ch’è vero non spera la scorreria
quando per te forse è in gioco tutto.
Sei la sua preda, se le tue ferite sgorgano;
nulla ti assale, che non ti tradisca.
Giunge la luna, con brocche avvelenate.
Bevi il tuo calice. L’amara notte cala.
La feccia schiuma su penne di colombe,
se un ramo non è portato in salvo.
Schiavo del mondo, sei gravato di catene,
ma quel ch’è vero nel muro apre le crepe.
Vegli e nel buio vai scrutando intorno,
a ignota via d’uscita tu sei volto.
Il gioco è finito
Mio caro fratello, quando costruiremo una zattera
per scendere lungo il cielo?
Mio caro fratello, presto sarà il carico immenso
e noi affonderemo.
Mio caro fratello, tracciamo sul foglio
molti paesi e binari.
Sta attento a linee nere,
lì salti in aria con le mine.
Mio caro fratello, voglio gridare
legata stretta al palo.
Ma già cavalchi dalla valle dei morti
e insieme fuggiamo.
Svegli nel campo di zingari e svegli in tenda nel deserto,
scorre sabbia dai nostri capelli,
la tua, la mia età e l’età della terra
non si misura con gli anni.
Non lasciarti ingannare dall’astuzia dei corvi,
da una zampa vischiosa di ragno, dalla penna nel rovo,
nel paese di cuccagna non mangiare e non bere,
schiuma apparenza da padelle e bicchieri.
Solo chi al ponte d’oro, per la fata rubino
la parola sa ancora, ha vinto.
Devo dirti che con l’ultima neve
si è sciolta nel giardino.
Hanno piaghe i nostri piedi, per molte e molte pietre.
Uno è sano. Con lui salteremo,
finché il re dei fanciulli, con in bocca la chiave del regno,
non ci prenda con sé e noi canteremo:
È una bella stagione, quando il dattero è in fiore!
Chi cade ha le ali.
Un rosso ditale orla il sudario dei poveri,
e il tuo cuore cade sul mio sigillo.
Si va a dormire, caro, il gioco è finito.
In punta di piedi. Si gonfiano le camicie bianche,
Papà e mamma dicono che ci sono i fantasmi
quando scambiamo il respiro.
Invocazione all’Orsa Maggiore
Scendi, Orsa Maggiore, notte arruffata,
fiera dal manto di nubi, dagli antichi occhi,
stelle occhi,
nel folto si aprono, scintillanti,
le tue zampe con gli artigli,
stelle artigli,
vigili pascoliamo gli armenti,
pur da te ammaliati, e diffidiamo
dei tuoi fianchi sfiniti, degli aguzzi
denti dischiusi,
vecchia orsa.
Un cono di pigna: il vostro mondo.
Voi: le sue squame.
Dagli abeti del principio
agli abeti della fine
lo rivolto, lo sbalzo,
l’annuso, ne saggio il sapore
e l’abbranco.
Temete e non temete!
Gettate l’obolo nella borsa,
all’uomo cieco una buona parola,
perché tenga l’orsa al guinzaglio.
E condite gli agnelli di spezie.
Potrebbe quest’orsa
liberarsi, non più minacciando,
incalzando ogni pigna, dagli abeti
caduta, maestosi abeti alati,
precipitati dal paradiso.
Mio uccello
Qualunque cosa accada: il mondo devastato
ricade indietro nel crepuscolo,
un elisir gli offrono i boschi perché dorma,
e dalla torre che la vedetta lasciò vuota
gli occhi della civetta calmi e fermi scrutano.
Qualunque cosa accada: tu sai il momento,
tu prendi il velo, mio uccello,
e giungi a me per la nebbia.
Vagano i nostri occhi nell’orbita abitata dalla feccia,
tu segui il mio cenno, portandoti fuori
in un vortice di piume e calugine –
Grigio compagno della mia spalla, mia arma,
adorno di quella penna, mia unica arma!
Mio unico fregio: il tuo velo e la tua penna.
Quand’anche nella danza degli aghi sotto l’albero
la pelle mi bruci,
e il cespuglio che giunge all’anca
mi tenti con foglie speziate,
quando le mie chiome guizzano
ondeggiando e bramano madore,
detriti di stelle rovinano
proprio sui miei capelli.
Quando sotto un elmo di fumo
nuovamente so cosa accade,
o mio uccello, o soccorso mio della notte,
quando nella notte divampo,
crepita nella macchia scura
e la scintilla da me stessa estraggo.
Quando infuocata come sono rimango,
e amata dal fuoco,
finché resina stilla dai tronchi
goccia a goccia sulle ferite, e calda
di sé intesse la terra,
(e quand’anche il mio cuore tu predassi di notte,
mio uccello in fede e mio uccello per sempre!)
nella luce si mostra la vedetta
che tu, placato,
in splendida calma volando raggiungi –
qualunque cosa accada.
Réclame
Ma dove andare
spensierato sii spensierato
quand’è buio e fa freddo
spensierato
e cosa fare
con musica
dunque
allegro con musica
e pensare
allegro
al cospetto di una fine
con musica
e dove portare
meglio
le nostre domande e l’orrore di tutti gli anni
nella lavanderia dei sogni spensierato sii spensierato
cosa accade dunque
meglio
quando quiete mortale
si fa
Discorso e diceria
Dalle labbra nostre non uscire,
parola che semini il drago.
È vero, l’aria è afosa,
schiuma la luce di acidi e fermenti,
e grava sulla palude nero il velo di zanzare.
Volentieri la cicuta si abbevera.
Una pelle di gatto è in mostra,
la serpe sopra vi soffia,
lo scorpione compare.
Al nostro orecchio non giungere,
notizia d’altrui colpa.
Parola, muori nella palude,
da cui sgorga la pozzanghera.
Parola, sii con noi,
pazientemente tenera
e impaziente. Deve il seminare
avere fine!
Non domerà l’animale, chi ne imita il verso.
Chi rivela i suoi segreti d’alcova, si priverà d’amore.
Bastarda la parola si fa lazzo e sacrifica uno stolto.
Chi ti chiede sullo straniero una sentenza?
E se la pronunci non richiesta, va’ tu, di notte in notte,
con le sue piaghe ai piedi, va’! non ritornare.
Parola, sii tra noi,
libera, chiara e bella.
Certo deve aver fine,
il diffidare.
(Il gambero indietreggia,
la talpa dorme troppo,
l’acqua morbida scioglie,
il calcare che ha tessuto pietre.)
Vieni, grazia di suono e di fiato,
fortifica questa bocca,
quando la sua debolezza
ci atterrisce e frena.
Vieni e non ti negare,
poiché noi siamo in lotta con tanto male.
Prima che sangue di drago protegga il nemico
cadrà questa mano nel fuoco.
Mia parola, salvami!
Ombre rose ombre
Sotto un cielo straniero
ombre rose
ombre
su una terra straniera
tra rose e ombre
in un’acqua straniera
la mia ombra
Ingeborg Bachmann (Klagenfurt 1926 – Roma 1973), nota anche come Ruth Keller, ottiene il Premio del Gruppo 47 per le poesie riunite ne Il tempo dilazionato (1953), in cui i motivi ideologici della sua formazione intellettuale (Heidegger, Wittgenstein) s’incontrano con il tema della generazione venuta dopo gli orrori della guerra nella dimensione d’un linguaggio spesso tormentato e astruso, ma sempre autentico. Nella successiva raccolta, Invocazione all’Orsa Maggiore (1956), i nodi espressivi tendono a sciogliersi in un dettato più lucido (vi compare spesso, al posto del metro libero, la strofa rimata), pur senza perdere di profondità. Di singolare interesse (a parte alcuni testi minori, fra i quali i radiodrammi Le cicale, 1955, e Il Buon Dio di Manhattan, 1958, in forma di ballata) sono altresì i volumi di racconti Il trentesimo anno (1961) e Simultan (1972) e il romanzo Malina (1971): pagine narrative caratterizzate da una intensa vibrazione poetica, anche se quasi sempre lontane dai moduli della prosa lirica.
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Testi selezionati da Invocazione all’Orsa Maggiore (trad. di L. Reitani, Mondadori, 1999)