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HART CRANE
Poesie scelte

Giardino astratto


La mela sul suo ramo è il desiderio

di lei, – sospensione lucente e mimica del sole.

Il ramo le ha tolto il respiro, e la sua voce,

nell’inclinarsi e levarsi su di lei di ramo in ramo,

articolata sordamente ecco le annebbia gli occhi.

Lei prigioniera dell’albero, delle sue dita verdi.


Giunge così a sognare d’essere divenuta albero, col vento

che la possiede e intreccia le sue vene giovani,

la stringe al cielo e al suo rapido azzurro, annegando

la febbre delle mani nella luce

del sole. E non c’è in lei memoria, paura né speranza,

oltre l’erba e le ombre distese ai suoi piedi.



Leggenda


                                                                   A Waldo Frank


Silenti come si crede che sia silente uno specchio

le realtà nel silenzio si tuffano, vicino...


Non sono ancora pronto al pentimento;

né a accendere rimpianti. Poiché la falena

altro non curva che la fiamma

immobile implorante. E i baci tremolanti

nei fiocchi bianchi che cadono, – sono

le sole cose, fra tutte,

che abbiano valore.


Si possono imparare –

questa scissione, questo bruciare,

ma solo da chi intenda

di nuovo consumarsi.


Due volte e ancora due volte

(ancora il fumante souvenir,

eidolon sanguinante!) eppure ancora.

Finché la logica splendente sia

vinta senza sussurri, come

si crede sia uno specchio.


Poi goccia a goccia caustica un perfetto pianto

come da uno strumento a corda leverà un’armonia costante, –

un salto inesorabile per tutti quelli che spingono

la leggenda della loro giovinezza nel pieno del meriggio.



Al ponte di Brooklyn


Per quante albe, mentre si sveglia gelido dal suo

sonno ondeggiante, le ali del gabbiano

lo faranno tuffare e roteare, e spargeranno attorno

circoli bianchi di tumulto, eleveranno alta

la Libertà, sopra le incantate acque della baia –


poi con curva inviolata lasciano i nostri occhi

spettrali come vele che si incrociano

su qualche foglio illustrato da archiviare;

– fino a che gli ascensori non ci spingono

fuori dal nostro giorno...


Allora penso ai cinema, i trucchi panoramici

di moltitudini tese a una fulminea scena

mai del tutto dischiusa e a cui sempre si accorre,

annunciata a altri occhi sullo stesso schermo;


e tu attraverso il porto, con passo d’argento

come se fosse il sole a tenere il tuo passo, eppure un moto

mai consunto lasciasse nella tua andatura, –

come è implicito il modo in cui la libertà ti tiene!


Da qualche sbocco di metropolitana, da un abbaino oppure da una cella,

un pazzo si precipita ai tuoi parapetti, vi si sporge un attimo

con la camicia rigonfia e schioccante, e una spiritosaggine

cade da quella carovana ammutolita.


Giù da Wall Street, dalla trave maestra il pomeriggio

s’insinua nella strada, un becco enorme

d’acetilene nel cielo; e tutto il pomeriggio

le gru volteggiano spinte da una nuvola...

I tuoi cavi respirano ancora il Nord Atlantico.


E oscuro come il cielo degli ebrei

ecco la tua ricompensa... Quell’anonimo abbraccio che ci doni

non può distruggerlo il tempo: tu dimostri a noi

una vibrante grazia, un vibrante perdono.


Oh arpa e altare, fuso della furia, (come poté la semplice

fatica allineare i tuoi archi corali!)

soglia terrificante del pegno del profeta,

tu preghiera di paria e grido dell’amante, –


nuovamente i semafori che sfiorano il tuo rapido

ininterrotto idioma, sospiro immacolato delle stelle,

e imperlano il tuo corso – condensano l’eterno;

abbiamo visto la notte sollevata, tenuta

stretta fra le tue braccia. Attesi


presso i piloni e sotto la tua ombra;

solo nel buio la tua ombra è chiara.

Tutti i pacchi infuocati della City ora sono disfatti,

e già la neve sommerge un anno ferreo...


Oh insonne come il fiume sottostante,

tu che scavalchi con un arco il mare

e la zolla sognante delle praterie, slànciati

verso le nostre bassezze, e qualche volta scendi,

e con la tua curvatura presta un mito a Dio.



***


Preso nei cerchi del volo del bozzagro urlai legato al palo;

non potevo strappare le frecce dal mio fianco.

Avviluppato in quel fuoco vidi più sentinelle all’erta –

come marea guizzando superai gli inguini della collina.


Udii il silenzio della lava opporsi alle tue braccia,

denti di cervo schiumanti a una gola di corvo;

cateratte di fiamma dal cielo in sciami brulicanti

nutrivano gli anelli delle tue caviglie al fosso del tramonto.


Oh, come la lucertola nel pomeriggio furioso,

che le zampe e i colori abbandona nel sole,

– e ride, puro serpe, e tempo, e luna

del tuo stesso destino, vidi l’inizio del tuo mutamento!


E ti vidi tuffarti a baciare il destino

come una bianca meteora, sacrosanta e fusa

infine a tutto ciò che è libero e adempiuto,

dove i primi e ultimi dèi tengono la tua tenda.



***


Ora è l’aquila a dominare i nostri giorni, giurista

della nuvola ambigua. Noi conosciamo il dominio stridente

delle ali imperiose... Lo spazio, istantaneo,

per un attimo guizza, e ci consuma nel suo sorriso:

un lampo all’orizzonte – meccanismi in moto –

e abbiamo risa, o più improvvise lacrime. Il sogno

cancella il sogno in questo nuovo regno del fatto

da cui ci risvegliamo nel sogno dell’atto;

vede se stesso un atomo in un lenzuolo funebre –

l’uomo ode se stesso motore in una nuvola!


«– Storici nelle età future» – ah, sillabe di fede!

Walt, dimmi, Walt Whitman, se l’infinito è ancora come

quando tu passeggiavi sulla spiaggia vicino a Paumanok –

nel tuo solitario vagare – ed udivi lo spettro

attraverso la schiuma, la sua nota d’uccello ricadere a lungo...

Per te i panorami e questa progenie di torri,

di te – il tema che s’è ampliato nella roccia.

O Vagabondo sulle libere strade spinte sempre avanti!



***


Soffiando turbini di vapore, un rimorchiatore

si spinse avanti, con un fischio galvanico risalì il Fiume.

Io contai gli echi adunati, ad uno ad uno, mentre

frugavano e tastavano la mezzanotte sui moli.

Le luci, costeggiando, lasciavano il timpano oleoso delle acque;

da qualche parte la tenebra sgorbiava vetro su un cielo.

E sotto questo tuo porto, o mia Città, sono passato

scagliato dalle spire di torri ticchettanti... Domani,

ed essere... Qui presso il Fiume che è Oriente –

qui al bordo dell’acque le mani lasciano cadere la memoria;

senz’ombra in quell’abisso giacciono inesplicabili.

Quanto lontano la stella ha risucchiato il mare –

o le mani dovranno ritrarsi, per morire?


Della nostra agonia raccogli il bacio

                                               O Tu Mano di Fuoco

                                                                       raccogli –



***


Rapido scroscio di luce secolare, Mito intrinseco

la cui crudele assenza d’ombra è la totale ferita della morte, –

Oh tu che hai gola di fiume – sorretto iridescente

nel luminoso umidore e nel tessuto delle nostre vene;

con argini bianchi che nella luce oscillano,

sostenute da lacrime le città tutte vengono

giustificate e provviste di campi ubertosi

che fra le loro messi ruotano in dolce tormento.


Oh per sempre Promessa brillante del Dio,

o Tu il cui cantico assegna fresca chimica

a inizio e beatitudine rapite, –

sempre attraverso gli accecanti cavi, alla nostra

gioia, della tua bianca presa la profezia fai emergere;

sempre attraverso il cordame che s’eleva a guglia, piramidi

in argentea sequenza, giovane nome dinamico del Dio

di bianche ali in coro... ascendi.


Migrazioni che devono annullare la memoria,

invenzioni che acciottolano il cuore, –

Tu impronunciabile Ponte a te stesso, o Amore.

Il tuo perdono per questa storia, Fiore più bianco,

o Tu che a tutto rispondi, – Anemone, –

ora mentre i tuoi petali i soli attorno a noi consumano,

sostieni, – (o Tu il cui splendore mi eredita)

Atlantide, – colui che a lungo ti canta sulle acque!


Così alla tua eterna Presenza, oltre il tempo,

simili a lance sanguinanti da una stella

che squilla e sgorga infinito – le orfiche corde,

falangi siderali, balzano e convergono;

– un Canto, un Ponte di Fuoco! È il Catai,

ora che la pietà impregna l’erba e arcobaleni accerchiano

il serpente nascosto con l’aquila in mezzo alle foglie...?

Nell’azzurro, bisbigli d’antifona oscillano.

Harold Hart Crane nasce a Garretsville (Ohio) nel 1899 e si trasferisce a New York nel 1917, dopo il divorzio dei genitori. Passa gli anni successivi tra questa città e Cleveland, dove lavora saltuariamente nella fabbrica del padre. Il resto dei suoi guadagni gli viene dall’attività sporadica di copywriter pubblicitario. Fin dal 1920 – complici lo stile di vita instabile e la sua promiscuità sessuale e sentimentale – soffre di alcolismo. Nel 1926 pubblica la prima opera poetica, Edifici bianchi, nella quale spiccano elementi tipici del simbolismo e l’utilizzo del linguaggio modernista. In seguito alla pubblicazione (e alla pessima ricezione) dell’ambizioso poema Il ponte, cade in un difficile stato depressivo. Muore suicida nel 1932, a soli 33 anni, gettandosi da una nave nell’Atlantico.



*

Testi selezionati da Il ponte e altre poesie (trad. di R. Sanesi, Guanda, 1967)

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