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GIOVANNA BEMPORAD
Poesie scelte

***


Per mille e mille autunni sia guanciale

la terra alle mie palpebre socchiuse

non più gravate da un presagio d’ombra;


non la mia bocca disfiorata, smorta

e agli angoli cadente, già sforzata

da spasimi e sorrisi, sembri assorta


nel sepolcro in preludi di orazioni;

e non sul plinto immortalmente vegli

la mia maschera, chiusa in un cristallo.



***


Mia compagna implacabile, la morte

persuade a lunghe veglie taciturne;

ma non so che inquietudine febbrile

fa ingombro a questo dolce accoglimento

calando il sole, prima che ogni gesto

si traduca in memoria e che ogni voce

s’impigli nel silenzio. Forse il vento

porta come un rammarico del tempo

che non è più, trascina per le strade

deserte una fiumana d’ombre care.

E biancheggia un’immagine tra i gigli

di giovane assopita nel suo riso.



***


Non farmi così sola come il vento

che si dispera in questa notte fonda

fino a morirne, eternamente sola

non farmi, come già sono da viva,

sotto la volta immensa ch’è misura

del nostro nulla. In punto di lasciare

questa mia fragile vicenda, tutte

le mie dolci abitudini, e la gioia

che spesso segue all’urto del dolore,

voglio adagiarmi su una zolla d’erba

nell’inerzia, supina. E avrò più cara

la morte se in un attimo, decisa,

piano verrà, toccandomi una spalla.



***


Ch’io muoia all’esaurirsi delle risa

quando più non sopporto una stanchezza

già scontata all’estremo; e sia d’autunno

mentre l’orecchio intendo estesamente

per la quiete, e soffochi il mio canto

una foglia che cade; o sia d’estate

quando tra rose rosse e gelsomini

ferve la guerra. Già da tempo estranea

a questa sinfonia d’estati e inverni,

non entrerò nei pallidi dominii

con purpurei tumulti dentro il cuore;

e al commento inesausto degli insetti

tra l’erba, al loro giubilo sonoro

che indietro mi richiama, io sarò sorda.



***


Perché vivo ancora

se più non rende suono tra le dita

col sole o con la pioggia,

col pianto o il riso la mia vecchia lira?



La domenica di una bambina morta


È domenica, e incendia rosse rose

l’ultimo addio del sole; ma la guancia

della bambina morta non s’infiamma

nella chiesa deserta: irrompe un coro

di chierichetti, e l’organo accompagna

lei che veste il santuario di candore

lasciando in terra la sua rosea carne.



Alba estiva


L’alba è disfatta e soffoca nel sole

l’uva matura. Ma nel fiume i bimbi

bagnano i corpi brevi, e non li tocca

l’afa, lucenti e nudi.


                                     Noi sul greto

punge l’ansia del giorno.


Come la rosa all’alba è fresca e viva,

ci è dato per lo spazio di un mattino

lieti e ingenui abitare sulla terra.



L’attesa


È quasi l’ora, e io esco all’aperto.

Dolce notte! perché dunque mi struggo?

E come il cielo è purissimo e calmo!


Conduci al convegno quella ch’io amo

e non trapassi inconsumata l’ora

o notte.


                In solitudine confusa,

dimentico tra me ch’ella è partita

e al luogo del convegno aspetto sola.



Sera di carnevale


La stanza vuota mi fluisce incontro

con un denso rigurgito di forme

tra gli oggetti quieti e sedentari;

se tento

fondermi in una folla o un sentimento

e aprirmi il varco fino alla piazzetta

cresce la mia tristezza;

se un pugno di coriandoli un ragazzo

mi getta in viso, bruciano i miei occhi

come sotto una frusta.



***


L’anima mia che ha tristezze d’aurora

e di tramonto, e il gusto della morte,

non più tenuta viva da illusioni

piange sommessa al clamoroso mare

come un fanciullo triste, abbandonato

senza difesa a tutti i suoi terrori.

Ma quando il sole un riso di rubini

mi semina tra i solchi della fronte,

spiegano i sogni un volo di gabbiani!

Persa in un mondo di gocce d’azzurro

e di freschezza verde, annego in questo

mare più dolce dell’oblio l’angoscia

cupa degli anni tardi, in cui presento,

rammaricando, che il mio tempo è morto.



***


O vento che commemori passate

moltitudini e fasti inceneriti,

o tempo contro cui non c’è riparo:

mi riduco al silenzio, nell’attesa

purissima dell’ombra che già stende

sui vivi un lembo della notte eterna.

Forse è quest’ombra tragica sospesa

sul ciglio della notte che fa illusi

gli uomini di conoscersi e di amarsi,

naufraghi nel silenzio dei millenni.

Giovanna Bemporad (1925-2013), ferrarese, fu allieva, al di fuori d’ogni accademia, di Carlo Izzo, Leone Traverso, Vincenzo Errante e Mario Praz; amica fraterna del giovane Pasolini e dell’anziano Sbarbaro, col quale intrattenne un lungo scambio epistolare testimoniato dal carteggio 1952-1964 edito nel 2004 dalle Edizioni Archivi del ’900. Traduttrice precocissima dei massimi poemi della tradizione classica (prima l’Eneide, poi l’Iliade e l’Odissea, la cui versione in endecasillabi le vale a tutt’oggi la fama), si è occupata anche di poesia moderna, inglese (Byron), francese (Mallarmé, Valéry) e tedesca (Goethe, Rilke, Hölderlin). L’ultima sua traduzione è dall’ebraico, Il Cantico dei cantici (Morcelliana, 2006). Parallelamente all’attività di traduzione si è dedicata negli anni alla propria poesia, con l’opera, da sempre in fieri, degli Esercizi.



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Testi selezionati da Esercizi vecchi e nuovi (Luca Sossella, 2011)

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