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GIORGIO CAPRONI
Poesie scelte

Nudo e rena


Corre del tuo bel dorso

nudo la solitaria

piana, di voci in fuga

e risa (alla salina

rena mentre l’aroma

della tua pelle il mare

chiama) la leggendaria

eco che da barbarie

di bimbi in gioco un fiato

fatuo muove dell’aria.



Donna che apre riviere


Sei donna di marine,

donna che apre riviere.

L’aria delle mattine

bianche è la tua aria

di sale – e sono vele

al vento, sono bandiere

spiegate a bordo l’ampie

vesti tue così chiare.



***


Basterà un soffio d’erba, un agitato

moto dell’aria serale, e il tuo nome

più non resisterà, già dissipato

col sospiro del giorno. Sarà come

quando, per gioco, cedevi l’amato

calore della mano al marmo – come

quando il tuo sangue leggero, alitato

appena dal tuo labbro, sulle chiome

dei pioppi s’esauriva in un rossore

vago di brezza: e io sentivo la pena

di quel lungo tuo eccedere in amore

disilluso e lontano, tu la pena

di non essere sola nel nitore

d’un presagio d’addio – tu già serena.



***


Pastore di parole, la tua voce

che può? Nel cupo colpo d’un portone

sbattuto, alle tue spalle ora una voce

ben più dura ha la notte. E cosa oppone

a quel tonfo il tuo palpito – la foce

strenua d’esilio? Una viva nazione

d’errori, insorgerà dalla veloce

tomba – soffocherà nel petto il nome

che tu porgi più puro. O sarà il vento

vacuo dei lastrici – il soffio che forte

preme in un lontanissimo tormento

di cani?... Sarà un gemito di porte

spinte. E nell’impeto chiuso ahi l’accento

ch’urge – la grande stanza nella morte.



Il vetrone


«Non c’è più tempo, certo,»

diceva. E io vedevo

lo sguardo perduto e bianco

e il cappottaccio, e il piede

(il piede) che batteva

sul vetrone – la mano

tesa non già lì allo stremo

della scala d’addio

per un saluto, ma forse

(era un’ora incallita)

per chiedere la carità.


Eh Milano, Milano,

il Ponte Nuovo, la strada

(l’ho vista, sul Naviglio)

con scritto: «Strada senza uscita».

Era mio padre: ed ora

mi domando nel gelo

che m’uccide le dita,

come – mio padre morto

fin dal ’56 – là

potesse, la mano tesa,

chiedermi il conto (il torto)

d’una vita che ho spesa

tutta a scordarmi, qua

dove «Non c’è più tempo,»

diceva, non c’è

più interstizio – un buco

magari – per dire

fuor di vergogna: «Babbo,

tutti non facciamo altro

– tutti – che                ».



A mio figlio Attilio Mauro che ha il nome di mio padre


Portami con te lontano
                                 ... lontano...
nel tuo futuro.

Diventa mio padre, portami
                                  per la mano
dov’è diretto sicuro
il tuo passo d’Irlanda
l’arpa del tuo profilo
biondo, alto
già più di me che inclino
già verso l’erba.


                             Serba
di me questo ricordo vano
che scrivo mentre la mano
mi trema.


                   Rema
con me negli occhi al largo
del tuo futuro, mentre odo
(non odio) abbrunato il sordo
battito del tamburo
che rulla – come il mio cuore: in nome
di nulla – la Dedizione.



Bisogno di guida


M’ero sperso. Annaspavo.

Cercavo uno sfogo.

Chiesi a uno. «Non sono,»

mi rispose, «del luogo.»



Talamo


Cercavamo un talamo

al nostro bisogno.

Ci svegliammo. L’amore

rimase nel sonno.



Ribattuta


                       Il guardiacaccia,

                       con un sorriso ironico:


– Cacciatore, la preda

che cerchi, io mai la vidi.


                        Il cacciatore,

                        imbracciando il fucile:


– Zitto. Dio esiste soltando

nell’attimo in cui lo uccidi.



Conclusione quasi al limite della salita


– Signore, deve tornare a valle.

Lei cerca davanti a sé

ciò che ha lasciato alle spalle.



Riandando, in negativo, a una pagina di Kierkegaard


L’erba come va lontana

e vuota, nel suo vuoto

odore...


               Il sole

è tormentato.


                           Aspetto

le punte di viva vita

delle stelle.


                     Ascolto.


Sento solo un rumore

perso d’acqua sbiadita.


Nessun Ponte Nero.

Nessun Gilbjerg.


                                 I morti

restano morti e invano

li richiama il pensiero.


Siamo soli: io e il grido

– rauco – del gabbiano.


Nessun occhio armato.


Nessun «uccello che canti,

sul vespero, la sua preghiera».


Tutt’intorno il buio.

Il mare. La sua brughiera.



Rivelazione


Mi sono risolto.

Mi sono voltato indietro.

                                                Ho scorto

uno per uno negli occhi

i miei assassini.

                             Hanno

– tutti quanti – il mio volto.

Giorgio Caproni (Livorno 1912 – Roma 1990) ha collaborato a diversi periodici e quotidiani, fra cui «La Fiera letteraria», «Il Punto», «La Nazione». Nel 1982 ha ricevuto il premio Feltrinelli dell’Accademia dei Lincei. Nella ricerca costante di una limpida trasparenza, l’opera di C., uno dei poeti più liberi del nostro tempo, presenta soluzioni di grande efficacia e novità, riducendo progressivamente i versi a essenziali frasi rimate in una dizione quasi aforistica, caratterizzata da grande scioltezza e dall’importanza attribuita ai minimi particolari verbali. L’apparente chiarezza cela tuttavia una complessa visione esistenziale, e alle incisive rappresentazioni di paesaggi e figure, alle immediate espressioni delle gioie e dei dolori del vivere quotidiano si accompagna il sentimento angoscioso dell’infruttuoso tentativo da parte dell’individuo di cogliere un significato globale nel cosmo e nel proprio esistere. L’intera opera poetica di C. è riunita nel volume Poesie 1932-1986 (1989), che comprende tutte le raccolte già edite (successive al 1960: Congedo del viaggiatore cerimonioso e altre prosopopee, 1965; Il muro della terra, 1975; Erba francese, 1979; Il franco cacciatore, 1982; Il conte di Kevenhüller, 1986) e gli inediti Versicoli del controcaproni. È stato anche autore di racconti (Il labirinto, 1984) e traduttore di Proust, Céline, Char, Frénaud e altri scrittori francesi.



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Testi selezionati da Tutte le poesie (Garzanti, 1983)

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