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FRANCO FORTINI
Poesie scelte

Fare e disfare


La foglia tornava all’albero e la nuvola al ramo.

Il ricordo coronava le vecchie case.

Il sangue abbandonato faceva piangere.

Si muravano nuove case, altre opere.

Leggi dolorose guidavano la città.


Nel museo brilla la fiala delle tombe e la cenere

che il vento agita agli acrotèri

è delle guerre spente ma è già seme.

Si mutano invisibili i pensieri,

storia e speranza insieme è quanto fu attimo e pianto,

dall’incertezza nasce la determinazione,

ma dalla volontà buona la voglia di non essere

e dal piacere di morte la tenera foglia.

Tutto sopporta tutto.

                                          E si vorrebbe

cedere, uscire, non essere più.


Ma ancora dieci passi prima della scarpata

prima del piombo in cuore

ancora dieci attimi prima della corsa ultima

nella luce del fosforo

ancora dieci anni per chiedere la pietà.


Ma anche per rivivere e lavorare

e disperare per rivivere

morire per lavorare

disperare per morire

lavorare per rivivere.



Traducendo Brecht


Un grande temporale

per tutto il pomeriggio si è attorcigliato

sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.

Fissavo versi di cemento e di vetro

dov’erano grida e piaghe murate e membra

anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando

ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,

ascoltavo morire

la parola d’un poeta o mutarsi

in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi

sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli

parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso

credo di non sapere più di chi è la colpa.


Scrivi mi dico, odia

chi con dolcezza guida al niente

gli uomini e le donne che con te si accompagnano

e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici

scrivi anche il tuo nome. Il temporale

è sparito con enfasi. La natura

per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia

non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.



I destini generali


È vero che sono stanco:

questo scendere scale e salire

deride, finché uccide, gli stanchi.

Avere negli occhi pomeriggi interi

soli agri, irrazionali realtà!

Se nemmeno l’augurio mi dà gioia

allora sparire diviene necessario.


Se la gioia non mi vince

rovinando sulle querce

lavando le scogliere

invadendo la fronte


il rancore dell’inganno

e danno e pianto divorato e spento

anche distrutte queste labbra

e sciolti in creta gli occhi tanto ansiosi

veleno saranno e vergogna

nelle vene degli altri

e mai lasceranno le menti!


Secolo di calce e fluoro, bava

di aniline e corpi come lava

di visceri: ecco i cordiali aperitivi

con gli assassini e la valutazione

obiettiva del niente... Se non trionfo

dureranno eterni,

saranno in uno che è me stesso, me

sempre sopravvissuto.


Immortale io nei destini generali

che gli interessi infiniti misurano

del passato e dell’avvenire, io pretendo

che il registro non si chiuda

che si cerchi ragione, che si vinca

anche per me che ora voce mozza vo,

che volo via confuso

in un polverio già sparito

di guerre sovrapposte, di giornali,

baci, ira, strida...



Ragione degli anni


Si può ancora disperdersi, schiarite

dei mesi incerti, soli obliqui.

Si può ancora volare per la vostra

polvere tenera, schiarite.


Di rado il profondo su querce e vasche d’iride

Eliso azzurro meditando posa

e un chiù persuade il viale roseo

che l’affanno può sparire.


Ma gioventù ci aspetta in una sera

di calme stille dai rami e di passi

incerti. Una leggera chiara sera

avremo ragione degli anni.



La partenza


Ti riconosco, antico morso, ritornerai

tante volte e poi l’ultima.


Ho raccolto il mio fascio di fogli,

preparata la cartella con gli appunti,

ricordato chi non sono, chi sono,

lo schema del lavoro che non farò.

Ho salutato mia moglie che ora respira

nel sonno sempre la vita passata,

il dolore che appena le ho assopito

con imperfetta, di sé pietosa, atterrita tenerezza.

Ho scritto alcune lettere ad amici

che non mi perdonano e che non perdono.

E ora sul punto di dormire,

un dolore terribile mi morde

come mille anni fa quando ero bambino

e lo chiamavo Iddio, e Iddio è questo

ago del mondo in me.


Fra poco, quando dai cortili l’aria

fuma ancora di notte e sulla città

la brezza capovolge i platani, scenderò per la via

verso la stazione dove escono gli operai.

Contro il loro fiume triste, di petti vivo,

attraverso la mobile speranza

che si ignora e resiste,

andrò verso il mio treno.



Il presente


Guardo le acque e le canne

di un braccio di fiume e il sole

dentro l’acqua.


Guardavo, ero ma sono.

La melma si asciuga fra le radici.

Il mio verbo è al presente.

Questo mondo residuo d’incendi

vuole esistere.

                  Insetti tendono

trappole lunghe millenni.

Le effimere sfumano. Si sfanno

impresse nel dolce vento d’Arcadia.

Attraversa il fiume una barca.

È un servo del vescovo Baudo.

Va tra la paglia d’una capanna

sfogliata sotto molte lune.

Detto la mia legge ironica

alle foglie che ronzano, al trasvolo

nervoso del drago-cervo.

Confido alle canne false eterne

la grande strategia da Yenan allo Hopei.

Seguo il segno che una mano armata incide

sulla scorza del pino

e prepara il fuoco dell’ambra dove starò visibile.



***


Era la guerra, la notte tremavano

nelle credenze i cristalli al ronzio

delle ondate da ovest ad oriente

o a sud, verso l’Italia. Chi ero io

e tu chi eri? Cominciò così.


Lungo e grigio era il lago di Zurigo

e i tram celesti nell’aria di neve.



Une tache de sang intellectuel


Una macchia di sangue intellettuale

che il sole non asciuga mai. «Oh, che cosa vuoi fare!»

mi gridano i compagni coraggiosi

alti tra le bandiere e le sostanze reali

della festa di corpi naturali

di lotta e di amor vero.


«Voglio esistere e voi perdonatelo»

rispondo io, di quaggiù, dalla segreta.

«Anche come il viscere della bestia stracciata

anche come il sangue rappreso nella polvere.


Anche il cieco nato può in sé vedere il lampo

e parlarne con gesti imperfetti

e il suo discorso in catene

può atterrire e può dissuggellare.

E chi sempre ha negata l’avventura

può non lontano dalle nostre case

disvelare una terra di miracolo.»


«Oh, cosa aspetti» mi gridano i viventi

impetuosi ancora tra le vendemmie.

«Passa il tuo giorno» gridano, bocche al sole.


«Nessun orgoglio» rispondo «amici miei cari!

E mi sarebbe dolce essere anch’io

dove voi siete. Ma a ognuno le sue armi.

A voi il fuoco felice e il vino fraterno

a me la speranza acuta dentro la notte.»



Forse il tempo del sangue


Forse il tempo del sangue ritornerà.

Uomini ci sono che debbono essere uccisi.

Padri che debbono essere derisi.

Luoghi da profanare bestemmie da proferire

incendi da fissare delitti da benedire.

Ma più c’è da tornare ad un’altra pazienza

alla feroce scienza degli oggetti alla coerenza

nei dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare.

Al partito che bisogna prendere e fare.

Cercare i nostri eguali osare riconoscerli

lasciare che ci giudichino guidarli essere guidati

con loro volere il bene fare con loro il male

e il bene la realtà servire negare mutare.



Parabola


Se tu vorrai sapere

chi nei miei giorni sono stato, questo

di me ti potrò dire.

A una sorte mi posso assomigliare

che ho veduta nei campi:

l’uva che ai ricchi giorni di vendemmia

fu trovata immatura

ed i vendemmiatori non la colsero

e che poi nella vigna

smagrita dalle pene dell’inverno

non giunta alla dolcezza

non compiuta la macerano i venti.

Franco Fortini (pseudonimo di Franco Lattes) nasce a Firenze da padre ebreo il 10 settembre 1917. Qui compie gli studi, laureandosi dapprima in Giurisprudenza e poi in Lettere (Storia dell’arte). Battezzato valdese nel 1939, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 fugge in Svizzera dove si unisce ai partigiani della Valdossola. Finita la guerra si stabilisce a Milano, che diventa sua città d’adozione, e unisce all’insegnamento un’intensa attività di collaborazione a riviste politiche e culturali. Dopo il 1957, anno in cui lascia le file del Partito Socialista, continua la sua partecipazione alla vita politica italiana da posizioni della sinistra non ufficiale. Tra le sue raccolte poetiche ricordiamo: Foglio di via e altri versi (1946), Poesia ed errore (1959), Questo muro (1973), Paesaggio con serpente (1984). Muore nel capoluogo lombardo il 28 novembre 1994.



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Testi selezionati da Tutte le poesie (Mondadori, 2014)

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