FERRUCCIO BENZONI
Poesie scelte
Azzurra e fosca
Il mare è quella cosa azzurra e fosca
che tu e io navigammo un giorno
e altri incanti poi, naufragi e tenerezze
a noi sparendo torbidamente avvolse.
Non reciti più «mi sento idiota e stupidosa» e io,
io (è sabato) più oltre sparirò nell’agro del mio cuore.
Berrò vino a frodo fra i vapori e ancora
sospirerà mia zia, dirà «porti su le gocce?»
Più non vivi di me l’iddio e la rabbia, quel sogno
(ricordi?) di topi in soffitta, di cartone e travi.
Altri sogni ormai ti faranno stornare ma
azzurro e fosco il mare (l’amore) perché
non muore mai – quella cosa che eri tu sola in me
tanto vasta, troppo, elementare.
Jeux de massacre
Da poco gli amanti sono dissolti
umidi e stanchi. È quasi l’alba.
Ah, io bevo e a mia madre so scippare
dal suo fodero d’abete un po’ di vita ancora
– miserabile calore.
E di te grido, amore, allo stellato incerto
a un’alba di cotone. Ebbra è l’aria e io
posassi la tua mano – penso – sulla mia fronte
la tua mano, quanta morte darei
per un massacro vano. Ma resto solo
e vivo, picchio la testa, come vedi scrivo:
fossero viole le voci, sarei di primavera!
M’allontano invece, deraglio dalla vita.
Posassi la tua mano – non più per solitudine
per amore infine saprei farla finita.
Altra estate
«Ma già il fatto che tu esisti...»
Trepidava un’estate nel piccolo tuo bunker
– bureau e, dopotutto, sul mio cuore.
Divampava nel mio orizzonte
di talpa un’iride...
Ma non può un ciclamino redivivo
adorare un frusto di luce.
Ancora risalivo un’estate
– non so se galleggiavo controcorrente,
certamente ne morivo.
Di giugno
Altre calamità
non sempre dicibili non
miniaturizzabili sempre
– e il sole a bruciapelo
di un’estate irrompente soccorrendo
tutto il verde delle robinie.
Ma vedi come l’età aiuta
a mitigarne lo sfarzo (lo spasimo)
adducendo brividi in un poco
d’ombra serale, vociferando
piovaschi da una sventagliata
bassissima di rondini...
Così un inverno è divampato
e i suoi bracieri gelandosi
in un marmo stentoreo – ma
non credere ai miei crepuscoli a
un infortunio d’amore, tu sai
non esiste grazia senza l’orrore.
Lettera di risposta
Ma ti parlavo d’un passato che ha storia
se non in sogni improvvisi
– confidenze a un’ora della notte
più immaginate che udite.
Sotto pergolati o in una camera
di nudità appassionate.
E questa è la mia storia
o vorrei fosse abbandonandomi
tra le tue braccia fino a un futuro
d’erba medica e ardesia
su cui non piove se non per sentito dire.
Queste foglie
Queste foglie – mi dicono – spazzate
via scialbe tramortite sarebbero
un tumore dei platani non
un fortunale di fine estate.
Non so ma è tardi per rinvenire
troppo tardi nei capelli
radi di una madre una speranza
trepida e combusta.
Lasciatemi
a malincuore stropicciarle
irridendo o no una tempesta
di gemme che s’aprono dai libri.
Dopo l’ira
La luce del sole alla finestra.
Un piancito di scaglie di mare che s’apriva
dopo un volo bocconi...
Au ralenti non finiva mai
non finiva mai quel tuffo
passato e ripassato nella mente,
coccolato covato; implume.
Hai un bel dire cammina
(alla malora le giunture!)
– sforzati tra la folla che infestava
viva appestava cunicoli
di sedimentazione e delirio.
Ma come si fa – dimmi – a zoppicare
dopo gli angeli, barattare
una larva di sole alla finestra
con le gemme che spurgano dai rami
il fiato del fieno fradicio
– e quei vetri marezzati
solo ieri composti in un amoroso gelo.
Inverno in chiaroscuro
Resta una matita tra le pagine.
Inchiostri interrotti a un capoverso.
Non cambierà il paesaggio, o in peggio.
Forse è tempo di giungere al faro
struggere del suo baleno,
rientrare prima che la notte
revochi la certezza di vederti
sfilate le calze cercare
meno effimero un vuoto
nel vuoto tra le braccia.
A mio padre
Neanche con te che ora mi sorridi
con occhi nuovi in sogno
tra il viola delle nubi il giallo
asfissiante dei crisantemi –
lo slancio d’un volo ch’è finito,
neanche con te troverebbe ali.
E mentre t’allontani (rimuori)
timido come da una riva ti guardo,
ti sorrido, dopo quanti anni?
Dolcezze materiali
Non inverno ancora, non ora
(gemme di gioventù intempestiva),
amore mio crollando nel tuo
sonno m’illudeva
la non vecchiezza dei dormienti.
Come privo d’un braccio, del
volto – ahi figlia non cesserai
mai di nascere ruscellando le
ciglia le selve –
non ho vita che per tenerti in vita.
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Ferruccio Benzoni (Cesenatico, 1949 – Cesena, 1997) fu tra gli animatori della rivista «Sul Porto», pubblicata dal 1973 al 1983, che riuscì a creare un dialogo tra gli allora giovanissimi redattori (Stefano Simoncelli e Walter Valeri) e alcuni dei maggiori poeti delle generazioni precedenti come, tra gli altri, Franco Fortini, Giovanni Raboni, Giovanni Giudici e Vittorio Sereni. A testimonianza della lunga frequentazione fra Benzoni e Sereni si ricordi Miei cari tutti quanti... Carteggio di Vittorio Sereni con Ferruccio Benzoni e gli amici di Cesenatico, a cura di Dante Isella (San Marco dei Giustiniani, 2004). Un quaderno collettivo del 1980, con una nota di Giovanni Raboni (Quaderni della Fenice-64, 1980), che comprende (oltre ai testi di Simoncelli e Valeri) la raccolta La casa sul porto, costituisce un primo documento rilevante della sua poesia. Seguono poi le raccolte Notizie dalla solitudine (San Marco dei Giustiniani, 1986), Fedi nuziali (Scheiwiller, 1991), Numi di un lessico figliale (Marsilio, 1995), Sguardo dalla finestra d’inverno (Scheiwiller, 1998). Nel 2004 è uscito postumo Canzoniere infimo e altri versi, curato da Dante Isella per San Marco dei Giustiniani.
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Testi selezionati da Con la mia sete intatta (Marcos Y Marcos, 2020)