EUGEN JEBELEANU
Poesie scelte
Ars poetica
Sotto la carta non si scorge altro
che un cuore, che una bocca
come ferita viva nella corsa
di un treno fumigante.
Il sorriso
resti pure così.
C’è un uccello affondato nell’aria:
col canto che ritorna
senza di lui, commuove
foreste fitte di desolazione.
Il volto
che nella cera del giorno s’è annegato
perde in autunni fondi la sua forma.
Sulle tue guance che oscillano in pagine,
ombrose,
ricerca taciturno
la calce e la tua maschera.
Raso
Verso i fiumi, con flauti
liquidi scorre la mia mano,
ed accarezza il tuo
volto di nebbie, fanciulla
che mille volte ho perduto, che mille
volte ho incontrato in un’amara
inconsapevolezza.
Rinasci
su un’isola, e ti dòmina
una mano più viva del ricordo.
Io ti circondo al pari di una lacrima
che circonda lo sgraffio della fanciullezza.
Sei forse negra, o rendi
malinconico il sole riversandolo
sulla tua spalla ovale in vortice di flutti?
Lasciami le tue orecchie, per nasconderle
vicino a gambe più lunghe dell’attesa.
Forse dovremmo essere
sempre più accanto a noi di almeno un passo.
Buonanotte, mio amore di raso.
Dormiamo.
Altrimenti
Nuvola di camicie e letto e carta.
Niente di più quando noi siamo
nudi e la noia non arriva mai.
È come
se l’orologio scivolasse indietro.
Siamo d’autunno e gli alberi disfogliano
le loro stanche sete. Piangeresti:
ma il pianto non è che una busta
chiusa sopra le orbite.
Se ora
dovesse mai passare lentamente
qualcuno sotto casa come passa il tempo,
io mi separerei da te per scivolare
cercando anche i miei passi nelle ombre.
La stella
dell’alba impallidisce, scompare
dentro la mia vestaglia, deserta.
Ma gli occhi –
gli occhi intrecciano ancora un’armatura
su ogni vestito morto.
Elegia sulla scomparsa
Gli dei dell’acqua, barbuti,
inutilmente cercano il mio volto.
Pare che non mi abbiano scordato,
ma le ninfe dormono.
Non ho mai scritto il nome della mia anima
dicendo a me Tu solo potrai vincere
con il vento che culla le corde della lira,
col vapore che leva dai bordi della tazza
una capigliatura.
I cavalli, correndo,
hanno inciampato nei boschi,
una piega sull’altra anche il mantello
se n’è volato via. Oh Signore,
crescono funghi perfino sulle bocche...
Devo tacere, verranno a trovarmi.
Il lago fa salire nella sera
le sue candide palme di fumi.
Oh almeno mi trovassero,
magari nella segale.
La preghiera del cucchiaio
Concedi forza alla mano, che non
mi faccia traboccare, così
che io possa restare un lago silenzioso
da cui sorgono soli e lune fumeggiando.
Non mi smussare, lascia che io sia
sempre profondo e saggio
come l’etere lieve di un’anima giusta,
e le mie rive restino
eternamente miti per la bocca
che trema e per la bocca che ha paura e
per la bocca che ha fame, e possa essere
sempre ricolmo per coloro che
mentre in me si rispecchiano ascoltano
la propria anima stanca e lentamente
mi sorseggiano e pensano alla vita.
Fa’ che la mia distesa
sia fulminata di giorno da una rondine
di sereno, e la notte
sopra le mie profondità ondeggino le stelle
con grani di luci più intensi. Concedi
forza alla mano di colui che trema
e che tentando d’alzarmi mi rovescia, e senza
saperlo mi colma di lacrime, e poi
assorto in gravi pensieri le sorseggia.
Dicembre
Oh come incroci, o taciturna, i miei
passi sopra le nevi del passato
seni di crisantemo che volano
miei lunghi smarrimenti
e lunghe slitte di travi
stelle profonde trafitte
tracce introvabili e rocce
antiche
dove soltanto il muschio è verde
sotto le ascelle fredde
là dove noi siamo passati insieme
dove non passerai mai più
dove la palpebra della luna
scivola eternamente cieca.
Sì e no
Io credo in tutto quello che è legato a te,
e sono molte cose, solo
i ciechi non le vedono, tu sei
sulla stella che a noi è più vicina;
come sarebbe naturale dunque
che tu apparissi. Non riesco a credere
a verità di uomini che vivono
magari un secolo e poi, vedi, scompaiono
per sempre. Certo, l’assurdo non mi sfugge,
ma io non posso credere all’assurdo.
Non sempre ciò che non si vede è come
un fantasma. Il dolore dello spirito
è molto più profondo del dolore
del corpo. Io credo nella forza delle cose
che non hanno imparato a volare. Non credo
nell’ingiustizia, e nemmeno nei venti della sorte
che ai molti e ai pochi dona ruote ardenti,
ruote di macchine solari.
Io sono il vaso di terra, il vaso che conserva
il bacio dei ricordi: ho manici che stanno
appoggiati al tuo braccio fermamente
oggi più d’una volta. Non credo nel sogghigno
dell’infamia di quelli che calpestano
non soltanto la terra ma i fratelli,
come non posso credere ai velluti
della palude. No, non posso credere
in quelli che vorrebbero al più presto
dimenticare chi ha lasciato il mondo,
perché vogliono solo abbandonare
lo spirito in preda alla morte.
Non credo nel corvo che vuole
coi fremiti del buio offuscare la fiamma
e gracchia: «Seguimi. Sono
io lo strumento della luce». Io credo nelle lucciole.
E credo nei tuoi cieli che non hanno
catene e credo nella tua bellezza, come
credo alla veste di tutti i tuoi pensieri. Non credo
nella dimenticanza. Mai.
Assenza
Cadi nelle mie braccia silenziosa
tu la scomparsa che sei solo mia,
come tacitamente in un’amaca cade
una stella perduta coi capelli sciolti.
A braccia aperte
Vi accolgo tutti con le braccia aperte:
venite uomini, venite caprifogli,
venite sogni e lupi. Lo so
che avete sempre bisogno di qualcosa.
Per voi mi farò terra, per voi mi farò fiume
con denti virginali o di saccheggio.
So che avete bisogno di nutrirvi.
Si disseta al mio sangue la peonia estiva
e la lingua del lupo che brilla rosseggiando.
Gli usignoli
Gli usignoli, sono loro
che ci han cavato gli occhi,
non tanto i lupi, non tanto i malfattori.
Ci hanno cavato gli occhi
quelli che ci hanno amato più di tutti,
quelli che sanno cantare,
cantarci e esorcizzare.
Ci hanno cavato gli occhi credendoli semi,
i nostri amici, i nostri amici brillanti,
quelli che ci hanno amato più di tutti,
le stelle con becchi di luce,
e l’hanno fatto sempre cinguettando,
pieni di gioia per il bene dato.
Erano gli usignoli di noi stessi.
Si poteva discutere con loro
di sfumature di colori, d’altezze di suoni,
di «poveretti noi» e dell’osanna dell’eternità.
Ci hanno amato, e baciandoci
ci hanno cavato gli occhi.
Ed ora ciechi ci diamo la mano
mentre passiamo barcollando il ponte
di questa oscurità.
Eugen Jebeleanu (Cîmpina, BraŞov, 1911 – Bucarest 1991). Dopo essersi laureato in Giurisprudenza all’Università di Bucarest si dedicò quasi esclusivamente al giornalismo e alla letteratura. Esordì nel 1934 con la raccolta di versi Cuori sotto le sciabole, caratterizzata da uno stile composito, con influssi parnassiani ed ermetici. Jebeleanu ha al suo attivo anche una notevole opera di traduzione (Rilke, Neruda, Blas de Otero, Guillen, Morgerstern, ecc.). La produzione successiva (Quello che non si scorda, 1945; Poemi di pace e di lotta, 1950; Il sorriso di Hiroshimai, 1959) ebbe un’ispirazione polemica e rivelò una forte passione civile. Con Elegia per un fiore falciato (1967) nella poesia di J. entrò l’elemento autobiografico con toni introspettivi e intimistici.
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Testi selezionati da La porta dei leoni (trad. di R. Sanesi, Palazzi, 1970)