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ENDRE ADY
Poesie scelte

Il poeta di Hortobágy


Un giovane cumano, occhi grandi,

dilaniato da brame pensose,

custode di mandrie, andava verso Hortobágy,

la celebre steppa magiara.


Miraggi e crepuscoli allora

cento volte gli presero l’anima.

E se nel cuore un fiore sbocciava

se lo brucavano i popoli branco.


Mille volte pensò cose sublimi.

Pensò alle donne, al vino, alla morte.

Ovunque altrove nel mondo

sarebbe stato un sacro cantore.


Ma se osservava i compagni – sporchi,

ebeti, in brache – se osservava il suo gregge,

seppelliva veloce il suo canto:

erompeva in bestemmie. O fischiava.



Al cospetto del principe buono Silenzio


Cammino nel bosco, sotto la luna.

Mi battono i denti, fischietto.

Alle mie spalle, alto, un colosso:

il principe buono Silenzio;

e guai a me se indietro mi volto.


Guai a me se tacessi,

o guardassi lassù, verso la luna.

Un gemito, uno schianto.

Un solo passo, e il principe buono, Silenzio,

già mi avrebbe schiacciato.



Il Maligno antico


[...]


«Signore, ho una madre: una donna che è santa.

Ho una Léda: che sia benedetta.

Ho un paio di guizzi di sogni,

qualche seguace. E sotto la mia anima

un grande acquitrino: l’orrore».


«Avrei forse anche uno o due canti,

una o due nuove, grandi canzoni lascive,

ma ecco, voglio soccombere

sotto il tavolo, nell’ebbrezza,

in questa antica contesa».


«Signore, congeda il tuo servo desolato,

non c’è nulla ormai, solo la certezza

l’antica certezza, il sicuro sfacelo.

Non m’incantare, non farmi male, non darmi da bere.

Signore, io non voglio più bere».


«Ho la nausea, un gran disgusto

e reni malati e consunti.

Mi inchino a te un’ultima volta,

scaglio a terra il bicchiere.

Io mi arrendo, Signore».


[...]



Sangue e oro


A me, al mio orecchio fa lo stesso,

se ansima la voluttà o rantola il tormento,

se sgorga il sangue o tintinna l’oro.


Io so, proclamo che questo è il Tutto

e che a nulla serve ogni altra cosa:

solo il sangue e l’oro. Il sangue e l’oro.


Tutto muore e tutto trascorre,

gloria, canti, potere, denaro.

Ma sopravvivono il sangue e l’oro.


Popoli muoiono e ancora rinascono

e santo è l’audace che, come me, afferma

per sempre: il sangue e l’oro.



Sotto il monte di Sion


Con barba arruffata, bianca, da Dio,

lacero, tremulo, correva ansimante,

il mio Signore, da tempo in oblio,

in alba d’autunno, umida, cieca,

da qualche parte, sotto il monte di Sion.


Una grande campana il mantello,

rattoppato con lettere rosse,

mesto e malconcio, il vecchio Signore,

percuoteva, picchiava la bruma,

per il Rorate cœli suonava campane.


Un lume nella mia tremula mano,

una fede nella mia anima lacera,

e nella mente la giovinezza di un tempo:

allora fiutavo l’odore di Dio,

e qualcuno andavo a cercare.


Mi attendeva là, sotto il monte di Sion,

ardevano i sassi con fiamme robuste.

Suonando campane mi accarezzava,

le sue lacrime mi mondavano il viso,

era buono il vecchio, e clemente.


La vecchia mano rugosa baciavo,

e contorcendomi rimuginavo

«Come ti chiami, bel vecchio Signore?

A chi ho rivolte le tante preghiere?

Ahimè, non riesco a ricordare».


«Una volta morto a te son tornato

io, che in vita ero dannato.

Potessi ricordare una preghiera di bimbo!»

Lui mi guardò con grande tristezza

e suonava, suonava campane.


«Oh, se sapessi il tuo nome grandioso!»

Attese, attese, poi ascese correndo.

Ogni suo passo il rintocco di un salmo:

salmo di morte. E intanto io siedo, piangendo,

piangendo, sotto il monte di Sion.



In tre sulla pianura


Siamo solo in tre sulla grande pianura:

Dio, io e una maledizione contadina.

So bene che tutti moriremo,

ma io lancio un forte grido spietato.


Io da solo non temo, non tremo,

tanto ormai il mio guscio è di Satana.

Eppure conservo la pianura e il suo Dio

assieme a quella maledizione contadina.


Qui ormai è inutile tutto, in autunno,

in inverno, e primavera, e nella lenta estate.

Sulla grande pianura non ci sarà prodigio,

se noi, noi tre, non proviamo a resistere.



E adesso ammutoliamo


Baciami in bocca, Sera, bella sorella

fammi tacere e dài la notizia

che il tuo fratello, quello che assorda,

ha smesso, irritato, i suoi canti.

Ora per l’ultima volta vuol raccontare

la poca letizia che ha ricavato

da questo matto matto cantare.

Baciami in bocca, Sera, bella sorella.


Divieti mesti, liete confessioni,

melodiosi lamenti, ferite profonde,

mai più scaverò nell’anima mia

pozzi per voi risonanti.

Ogni fonte di sangue è ricolma.

Sulla tomba del sacro tacere di ogni cosa

siedono, muti e come in croce,

divieti mesti e liete confessioni.


Viva ormai ogni cosa, e ciascuno.

Vivano le parole solenni,

ma Endre Ady non parla,

ma Endre Ady non parli.

Si nasconda pure, se sa dove andare,

dimentichi tutti i suoi desideri,

col cuore vermiglio percosso a livida morte,

viva ormai ogni cosa, e ciascuno.


Ammutoliamo, Sera, bella sorella.

Ammutoliamo con un grande bacio.

Guardiamo come fossimo morti,

allentate le corde, la sordità della notte.

Forse ancora romperemo il silenzio,

ma la nostra parola non sarà un sacro segreto,

tormento per noi e per gli altri.

Ammutoliamo, Sera, bella sorella.



La tristezza della resurrezione


[...]


Oh, guai a chi risorge

e non sente la propria vita,

la sua è la parola di vacuo burattino

e lui stesso è marionetta di un teatrino,

domanda, tentazione e mistero.

Io questo aspetto: che qualcuno

mi chiami

e con bocca dolce, calda

mi sussurri chi sono.


Qui nella valle dei Tatra c’è un lago,

scintillante, pulito, selvaggio.

Vi cerco dentro i secoli,

la mia vita,

i canti che schiudono le tombe.

Cerco vicinanza a me stesso,

al Tempo che vola via,

allo specchio, alla magia,

per riconoscermi dentro.

E si ferma la Vita

e so che ormai non c’è nulla,

nessuno vive più

e niente è vero.

Un vecchio viso grinzoso ghigna dal lago.

Non so chi sia.

Sono risorto, ahimè, sono risorto.



La vendetta del silenzio


(Una vecchia leggenda)


Gli venne tagliata la lingua

e languì a morte chi

le sue confortanti parole

assetato amava e bramava.


Così nella puszta viveva

l’ammutolito eremita,

fluttuando in pomeriggi sordi

come calda melodia estiva.


E quando tutto fu taciuto,

eruppe dolore e angoscia,

ogni pietà e silenzio,

accumulati nel muto.


Il vocio vociante in precedenza

mai s’era così presentato;

e tonante l’eremita sparse

tra tutti il suo verbo in abbondanza.


E dei semplici si acquetò

la collera e il cordoglio,

e come un Dio che dispone e castiga

la lingua tagliata parlò.

Endre Ady (1877-1919) è vissuto nell’Ungheria a cavallo di due secoli, alla vigilia del crollo dell’impero austro-ungarico, mentre il paese era combattuto tra arretratezza e modernità, tra le rivendicazioni sociali stroncate dalla tragedia della Grande Guerra e la nascita dei grandi movimenti artistici e culturali del Novecento. Di tutti gli umori del tempo ha fatto materia dei suoi versi. Poeta “maledetto”, consumato dall’alcool e dal fumo, spesso in povertà, ma con l’ambizione di frequentare il grande mondo internazionale della cultura, fu portato a morte precoce dalla sifilide contratta in un incontro occasionale. Inviso ai benpensanti, adorato dal popolo e dagli artisti, nella Budapest in cui si addensavano le ombre di un fascismo spietato seppe tenere aperto uno spiraglio di libertà, assieme a Béla Bartók, György Lukács, Lajos Kassák. Di famiglia calvinista, ebbe sempre una passione profonda per i testi della tradizione biblica, ma non ne fece mai oggetto di una devozione formale. Il suo definirsi un «incredulo che crede» lo fa sentire vicino alla sensibilità dell’Occidente contemporaneo.



*

Testi selezionati da Il perdono della luna. Poesie 1906-1919 (trad. di G. Caramore, V. Gheno, Marsilio, 2018)

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