DYLAN THOMAS
Poesie scelte
***
Prima che io bussassi ed entrasse la carne;
Con liquide nocche buttate sul ventre,
Io che ero informe come l’acqua
Che formava il Giordano vicino alla mia casa
Ero fratello della figlia di Mnetha
E sorella del germe generante.
Io ch’ero sordo a primavera e estate,
Che non sapevo il nome della luna e del sole,
Sentivo il tonfo sotto l’armatura
Della mia carne, forma ancora fusa,
Le stelle plumbee, il maglio piovoso
Che mio padre sferrava dalla cupola.
Conobbi il messaggio dell’inverno,
Le frecce della grandine, la neve infantile,
E il vento corteggiava mia sorella;
Il vento balzò in me, la rugiada infernale;
Le mie vene fluivano con il clima d’oriente;
Non generato conobbi il giorno e la notte.
Ancora ingenerato subii il martirio;
Il cavalletto del sogno le mie ossa liliali
Attorcigliò in un vivo monogramma,
La carne fu tagliata a incrociare le linee
Di croci del patibolo sul fegato
E le spine dei rovi nel cervello grondante,
La mia gola ebbe sete prima della struttura
Di pelle e di vene intorno al pozzo
Dove parole e acqua formano una mistura
Che non fallisce finché scorre il sangue;
Il mio cuore conobbe l’amore, il mio ventre la fame;
Sentii l’odore del verme nelle feci.
E il tempo sospinse alla deriva
O in fondo ai mari la mia creatura mortale
Avvisata della salata avventura
Di maree che mai toccano le rive.
Io che ero ricco fui reso più ricco
Sorseggiando alla vite dei giorni.
Nato di carne e spirito, non ero
Né spirito né uomo, ma un fantasma mortale.
E fui abbattuto dalla piuma della morte.
Io fui un mortale fino all’ultimo
Lungo sospiro che recò a mio padre
Il messaggio del suo morente cristo.
O voi che v’inchinate alla croce e all’altare,
Abbiate memoria di me e pietà di Colui
Che usò per armatura la mia carne e le ossa
E usò doppiezza al grembo di mia madre.
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La forza che nella verde miccia spinge il fiore
Spinge i miei verdi anni; quella che fa scoppiare le radici degli alberi
È la mia distruttrice.
E sono muto a dire alla rosa reclina
Che piega la mia giovinezza la stessa febbre invernale.
La forza che spinge l’acqua tra le rocce
Spinge il mio rosso sangue; quella che le correnti alla foce prosciuga
Le mie trasforma in cera.
E sono muto a urlare alle mie vene
Che alla fonte montana succhia la stessa bocca.
La mano che fa vortici nell’acqua nello stagno
Muove le sabbie mobili; quella che imbriglia i venti anche la vela
Regge del mio sudario.
E sono muto a dire all’impiccato
Che la calce del boia è la mia stessa creta.
Dove la fonte sgorga s’attaccano le labbra del tempo;
Amore goccia e si rapprende, ma il sangue versato addolcirà
Le ferite di lei.
E sono muto a dire alle intemperie
Che il tempo ha scandito un cielo intorno agli astri.
Muto a dire alla tomba dell’amante
Che verso il mio lenzuolo striscia lo stesso tortuoso verme.
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Dai sospiri nasce qualcosa,
Ma non dolore, questo l’ho annientato
Prima dell’agonia; lo spirito cresce,
Scorda, e piange;
Nasce un nonnulla che, guastato, è buono;
Non tutto poteva deludere;
C’è, grazie a Dio, qualche certezza,
E questo è vero dopo perpetua sconfitta.
Dopo siffatta lotta, come il più debole sa,
C’è di più che il morire;
Lascia i grandi dolori o tampona la piaga,
Ancora a lungo egli dovrà soffrire,
E non per il rimpianto di lasciare una donna in attesa
Del suo soldato sporco di parole
Che spargono un sangue così acre.
Se ciò bastasse, se ciò bastasse a dar sollievo al male,
Il provare rimpianto quando quello è perduto
Che mi rendeva felice nel sole,
Quanto felice il tempo che durava,
Se ambiguità bastassero e abbondanza di dolci menzogne
Potrebbero le vacue parole sostenere tutta la sofferenza
E guarirmi dai mali.
Se ciò bastasse, osso, tendine, sangue,
Il cervello attorcigliato, i lombi ben fatti,
Cercando a tastoni la materia sotto la ciotola del cane,
L’uomo potrebbe guarire dal cimurro.
Ché tutto quello che va dato, io l’offro:
Briciole, stalla, e cavezza.
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E la morte non avrà più dominio.
I morti nudi saranno una cosa
Con l’uomo nel vento e la luna d’occidente;
Quando le loro ossa saranno spolpate e le ossa pulite scomparse,
Ai gomiti e ai piedi avranno stelle;
Benché impazziscano saranno sani di mente,
Benché sprofondino in mare risaliranno a galla,
Benché gli amanti si perdano l’amore sarà salvo;
E la morte non avrà più dominio.
E la morte non avrà più dominio.
Sotto i meandri del mare
Giacendo a lungo non moriranno nel vento;
Sui cavalletti contorcendosi mentre i rendini cedono,
Cinghiati ad una ruota, non si spezzeranno;
Si spaccherà la fede in quelle mani
E l’unicorno del peccato li passerà da parte a parte;
Scheggiati da ogni lato non si schianteranno;
E la morte non avrà più dominio.
E la morte non avrà più dominio.
Più non potranno i gabbiani gridare ai loro orecchi,
Le onde rompersi urlanti sulle rive del mare;
Dove un fiore spuntò non potrà un fiore
Mai più sfidare i colpi della pioggia;
Ma benché pazzi e morti stecchiti,
Le teste di quei tali martelleranno dalle margherite;
Irromperanno al sole fino a che il sole precipiterà,
E la morte non avrà più dominio.
***
Distesi sulla sabbia, l’occhio al giallo
E grave mare, burliamo chi deride
Chi segue i rossi fiumi, scava
Alcove di parole da un’ombra di cicala,
Ché in questa tomba gialla di mare di sabbia
Un appello al colore urla col vento
Ch’è gaio e grave come la tomba e il mare
che dormono ai due lati.
I silenzi lunari, la marea silenziosa
Che lambisce i canali stagnanti, l’arida padrona
Della marea incassata tra deserto e burrasca,
Dovrebbero curare i nostri mali d’acqua
Con una calma d’un unico colore;
La musica celeste sulla sabbia
Suona in ogni granello mentre accorrono
A coprire i castelli e i monti d’oro
Della grave, gaia terra in riva al mare.
Avvolti da un nastro sovrano, sdraiati,
Guardiamo il giallo, facciamo voti che il vento
Spazzi gli strati della riva e anneghi
La rossa roccia; ma i voti sono sterili
E non possiamo opporci all’avvento roccioso;
Giaci guardando il giallo, o sangue
Del mio cuore, finché la stagione dorata
Non vada in pezzi come un cuore e un colle.
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Non andartene docile in quella buona notte,
I vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno;
Infuria, infuria, contro il morire della luce.
Benché i saggi conoscano alla fine che la tenebra è giusta
Perché dalle loro parole non diramarono fulmini
Non se ne vanno docili in questa buona notte,
I probi, con l’ultima onda, gridando quanto splendide
Le loro deboli gesta danzerebbero in una verde baia,
S’infuriano, s’infuriano contro il morire della luce.
Gli impulsivi che il sole presero al volo e cantarono,
Troppo tardi imparando d’averne afflitto il cammino,
Non se ne vanno docili in quella buona notte.
Gli austeri, prossimi alla morte, con cieca vista accorgendosi
Che occhi spenti potevano brillare come meteore e gioire,
S’infuriano, s’infuriano contro il morire della luce.
E tu, padre mio, là sulla triste altura maledicimi,
Benedicimi, ora, con le tue lacrime furiose, te ne prego.
Non andartene docile in quella buona notte.
Infuriati, infuriati contro il morire della luce.
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Non essendo che uomini, camminavamo tra gli alberi
Spauriti, pronunciando sillabe sommesse
Per timore di svegliare le cornacchie,
Per timore di entrare
Senza rumore in un mondo di ali e di stridi.
Se fossimo bambini potremmo arrampicarci,
Catturare nel sonno le cornacchie, senza spezzare un rametto,
E, dopo l’agile ascesa,
Cacciare la testa al disopra dei rami
Per ammirare stupiti le immancabili stelle.
Dalla confusione, come al solito,
E dallo stupore che l’uomo conosce,
Dal caos verrebbe la beatitudine.
Questa, dunque, è leggiadria, dicevamo,
Bambini che osservano con stupore le stelle,
È lo scopo e la conclusione.
Non essendo che uomini, camminavamo tra gli alberi.
Dylan Thomas (Swansea 1914 – New York 1953) fu l’iniziatore, con altri giovanissimi, di un “nuovo romanticismo” in risposta all’intellettualismo e al “classicismo” di cui erano accusati Auden e i poeti del suo gruppo. T. vi contrappose una forma di automatismo verbale e di deliberata retorica, cui fu condotto anche dal suo compiacimento per il suono delle parole. La sua poesia reca tracce palesi di Hopkins e Joyce, sebbene dalla cristiana disciplina del primo e dalla eccentrica pedanteria del secondo fosse assai lontano. Il primo volume di versi di T., Eighteen poems (1934), uscì appena quattro anni dopo il primo di Auden. Con Twenty-five poems e The map of love, la sua fama si consolidò. Nel 1940 apparve A portrait of the artist as a young dog, lirica rievocazione dell’infanzia, ricca di umorismo. Intanto il poeta, che era stato riformato dal servizio militare, lavorava negli studi della BBC; da quell’esperienza nacquero varie opere per la radio, tra cui Under milk wood (pubbl. post., 1954). Dopo la guerra T. fu più volte negli USA per conferenze e letture di poesia; dotato di una rara capacità di dicitore e declamatore, commuoveva e affascinava le platee. Si andò formando intorno alla sua persona in quegli anni un mito, cui contribuirono non poco la personalità rabelesiana del poeta, la vita disordinata, l’alcolismo, la simpatia umana che ispirava. Nel 1946 con Death and entrances, la sua opera poetica (pubblicata poi tutta in Collected poems, 1952) era praticamente compiuta.
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Testi selezionati da Poesie (trad. di A. Marianni, Einaudi, 2002)