DARIO VILLA
Poesie scelte
***
Mi ha svegliato, nel cuore
del pomeriggio,
una magica glissa del cariglione
del tv del vicino.
Per un’ora ho fantasticato
sul mondo.
Mi lascio vivere,
dismemoro rammemoro, non so
più in che meravigliosi luoghi ieri
ho lasciato il mio seme.
***
greve come un leopardo nella notte,
strana come un varano nella frutta,
enigmatica come un’autobotte,
limpida come un’ampolla distrutta;
ridotta alle dimensioni di un filo,
dilatata, afflitta, defilata,
diretta verso le foci del nilo,
espulsa scoria, espunta, obnubilata;
giardiniera d’interni, inaridita,
che pota il secco liquore dei rami,
agile maga d’aghi che, scucita,
satura il rotto tessuto in ricami;
eretta come pilastri di guano,
ghiaccio vertiginoso sciolto in canto,
muta così, bella come la mano
di un suicida che non getta il guanto
***
(una specie di vortice
vivere come se
poi perché mai
morire sopravvivere
tenace
incoerenza che
ti tiene dritto
ancora un po’
tanto così
ti dicono
va bene)
***
nato non può che dileguare, deve
cercare morte finché tempo ancora
lo divori, pronome amaro e duro,
ego divelto che s’ostina a credersi
qui, dove sprizza vita un’erba stridula
e serpi mordono confini incerti, luna
o sole, astratti culmini lo tentano
ma tende alla caduta, vuole abisso
– invenzioni dell’acqua: un clavicembalo
morto annegato, mezzo ponte, un loto...
cade al fondo di uno stagno e si desta
in un arabesco di simboli
o sono mosche? il mondo è fuoco
bianco, vuoto, quadrato:
l’io che si conta (una testa tramonta
tra le frasche)
***
perché lei
è una curva ha la forma della terra
è l’armonia di una curva
il petalo increspato che s’imporpora
schiuse le cluni
inclini al bel tormento il velo intatto
lieve la trasparenza dei suoi seni
la rosa
***
procedi sopra la fragile lastra
sotto s’agitano
semi volti figure
e gesti che rovesciano
pensieri come guanti come secoli
a strati e sono lamine instoriate
di strane cifre in verticale
vertigine
la muta
nuvola strina
questo peso di cielo che incrina
la terra
***
l’aurora di un biglietto colorato
sulla porta («non sono la sibilla
non c’è sole»)
e qualche bell’effetto personale
una scatola vuota una foto sfocata
e la cosa migliore
una calza di seta un po’ smagliata
dov’era la caviglia e un suono nero
o un profumo di terra appena smossa
nel punto in cui la sera prima aveva
palpitato lo stelo della coscia
***
non saprei dire
quando con precisione
imparai a nuotare ma non a volare
credevo nelle ombre
credevo alla perfezione
non ero labile come la storia
né fui mondo da scoria
finché non mi calai nel tempo quando
vidi la luce: la inondai
con una strana colla
diceva cose molto sporche e belle
credo che fosse vestita di nero
certo un dettaglio – ma tant’è – che importa –
ero ormai uomo fatto...
anche se poi, per qualche tempo,
continuai a osservare un gioco d’ombre
mi ci studiavo – ci vedevo poco –
davo il polmone al gatto
mi muovevo ogni anno di venti
venticinque centimetri almeno
«ah» pensavo giocando alle parole
«gli altri sono le nubi io sono il sole»
***
Ormai ci siamo abituati
a girare col muso di cartone,
le controscarpe, i talismani senza
un dito di fortuna.
Ci siamo adattati, mia cara,
a date e giorni, lunazioni, cose
da calendario. Senza scampo liberi
di venire, di andare.
È delizioso, mio stupendo
ossobuco. Le prigioni sembrano
coincidere al millimetro con
qualche chilometro di evasione.
Il rancio non è male. L’acqua e il sale
fanno mare, dolcezza. Ci siamo accorti
tardi che contemplare il mondo dalle sbarre
è piacevole come le sbarre dal mondo.
Dobbiamo riconoscere, ne
convieni, Pegaso? che tra interno
ed esterno non v’ha differenza
se non fittizia. Inferni di sarcasmo
vengono prelativamente
serviti in tavola. Nuovi sapori
ci determinano. Siamo politici
e ci pesiamo con giudizio.
Se ti guardo negli occhi
è me che vedo. Che uso fai delle ali,
ippogrifo? Tracanni
un fiume d’aria? voli alto? poi
che così tanto somigliamo al tutto,
sottosopra è lo stesso. E diventiamo
di giorno in giorno clamorosamente
sempre più giovani, e notturni.
Ci stiamo meravigliando
dei nostri crani di piombo
con l’espressione pensosa
di una steppa kirghisa.
Ci rulla un cuore di cemento
tra le autostrade della cavità
toracica, banana mia. Sta’ attenta,
ché anche i cavalli alati, scivolano, a volte.
Belva crudele, speculare, siamo
ormai nottiluchi, come nubifragi.
Fragili come befane di plexiglas,
tetragoni quanto una tetra agonia.
Sei bella, marziana d’uranio,
stufa di ghisa, zia porcellanata.
E siccome l’equatore, o psicopatico,
resechiamo imparziali, equamente distanti dai poli.
Dario Villa (Milano 1953 – ivi 1996) esordì con Lapsus in fabula, il suo libro più celebre, che gli valse il Premio Mondello opera prima nel 1985. Lavorò come traduttore dall’inglese e dal francese per le case editrici Guanda e Mondadori; nel 1995 uscì la sua ultima raccolta, intitolata Abiti insolubili; appena quarantaduenne, morì al Policnico di Milano dopo una lunga malattia.
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Testi selezionati da Tutte le poesie (Seniorservice Books-Feltrinelli, 2001)